Cucina campana. L'Abc dei prodotti e dei piatti della regione

10 Mar 2023, 12:58 | a cura di
Una ricchezza gastronomica incredibile, quella della Campania, regione che conta un numero elevato di prodotti locali di alta qualità, protagonisti di una grande cucina che sa rinnovarsi con il tempo, senza dimenticare le proprie origini. Per la rubrica sulle cucine regionali oggi vi raccontiamo l’Abc della cucina campana.

Cucina campana: i prodotti tipici

Aglio dell'Ufita

Nella Valle dell’Ufita, la parte più settentrionale dell’Irpinia, si coltiva un aglio particolarmente aromatico e ricco di oli essenziali. L’aglio dell’Ufita ha bulbi bianchi tendenti al rosato, di medie dimensioni, dal sapore delicato ma molto profumato. È quasi in via d’estinzione, anche a causa del fatto che ogni nuova piantna nuova si ottiene da semi detti bulbilli, da trovare presso le ditte sementiere locali. Nella cucina locale si usa crudo in insalate, in crema, spalmato sulle bruschette, oppure cotto in aggiunta a sughi, stufati, piatti di pesce o verdure.

Aglio dell'Ufita

Albicocca vesuviana

Citata già nel 1583 da Gian Battista Della Porta nella sua opera Suae Villae Pomarium, la storia dell’albicocca vesuviana è legata alla Cina sud-occidentale, in particolare dalle zone al confine col Pakistan, e fu introdotta in Italia dai soldati romani di ritorno dalle campagne in Armenia e Grecia. Conosciuta nella zona di produzione anche come crisommola, è una varietà coltivata nell’area vesuviana, da Nola a Torre del Greco, da Pompei a Portici. In realtà, con la denominazione di albicocca vesuviana si indicano circa 100 antiche varietà autoctone e selezionate dai genetisti, tutte prodotte nel territorio del Parco nazionale del Vesuvio, che hanno in comune una serie di caratteri come la polpa gialla zuccherina, il profumo intenso e il colore giallo aranciato della buccia. È una terra ricca, quella su cui crescono questi alberi, che permette di avere frutti dal sapore particolarmente intenso. Per questo, oltre al consumo diretto, l’albicocca vesuviana è molto usata anche per la produzione di confetture, succhi, sciroppi e canditi.

Albicocca vesuviana

Amarene appassite dei Colli di S. Pietro

Nella zona di Piana di Sorrento, in particolare nella zona dei Colli di San Pietro, Gragnano, Pimonte e Lettere, si producono amarene in grandi quantità. Prendendo in prestito la tecnica delle conserve di pomodoro, gli abitanti di quest’area hanno creato un prodotto attualmente molto utilizzato nell’industria dolciaria, le amarene appassite. Le amarene vengono colte e denocciolate, poi messe in grandi recipienti e ricoperte di zucchero. I contenitori vengono esposti al sole per qualche giorno in modo da farle essiccare completamente, avendo cura di girare le amarene diverse volte. Una volta secche si possono conservare in barattoli ermetici in modo da utilizzarle più avanti nella preparazione di dolci e biscotti. Lo sciroppo, invece, viene mischiato con succo di limone e utilizzato per confezionare bevande fresche.

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Arance (Pagani e Sorrento)

Di probabili origini cinesi, l’arancia di Pagani è coltivata nella zona dell'agro nocerino-sarnese, in particolare nei comuni di Pagani e S. Egidio di Monte Albino. La sua storia si lega a quella dei commercianti portoghesi del XVI secolo, che la introdussero nei territori europei: per questo motivo viene chiamata anche portualle. L'area in cui è coltivata assicura al prodotto un clima particolarmente equilibrato e un terreno misto, fra il vulcanico e l’alluvionale, che permette all’arancia di Pagani di essere particolarmente saporita.

La coltivazione dell’arancia di Sorrento risale al 1300 ed è una coltura tradizionale della penisola sorrentina. La varietà è la bionda, la buccia è spessa, il succo abbondante e un numero di semi elevato. Come il limone, l’arancia di Sorrento è coltivata da sempre utilizzando impalcature in legno di castagno, alte anche 7 metri, sopra le quali vengono sistemate le pagliarelle, tradizionali stuoie di paglia per la copertura, in modo che proteggano l’albero dal vento. In questo modo la maturazione dei frutti avviene dopo le altre specie, arrivando a toccare i primi di agosto.

Arancia di Sorrento

Cacioricotta di capra cilentana

Un formaggio particolare di latte crudo di capra cilentana, prodotto con una tecnica a metà fra quella di formaggio e ricotta, utilizzata anche in Puglia e Campania. Ha un pasta bianca e morbida nella versione più fresca, che diventa più gialla e scagliosa nel prodotto maturo. Dopo la stagionatura la pasta diventa dura e compatta, mentre il sapore si fa leggermente piccante. Ha una complessità aromatica elevata, grazie all’alimentazione delle capre fatta di erbe della macchia mediterranea e gariga (termine che indica la vegetazione mediterranea legnosa fatta da arbusti bassi come rosmarino, timo e ginestra) e varia il suo gusto secondo le zone specifiche di pascolo. I campani lo mangiano fresco, solitamente in insalata o accompagnata con del miele, ma anche come formaggio da grattugia. Nella versione più stagionata si usa per completare i fusilli al ragù di castrato, piatto tipico della zona.

Cacioricotta di capra cilentana

Carciofo di Paestum (IGP)

Chiamato anche Tondo di Paestum, il carciofo di Paestum IGP appartiene alla famiglia dei carciofi romaneschi. Ha una forma rotonda ed è privo di spine, le sue foglie verdi hanno delle particolari sfumature violetto-rosacee. Impiantato negli anni ‘20, l’attuale carciofo è frutto di un’accurata tecnica di coltivazione affinata nel tempo; si coltiva nella valle del Sele, una zona fra le provincie di Avellino e Salerno, il cui clima fresco e piovoso rende il suo sapore particolarmente delicato e la sua consistenza molto tenera. Generalmente nelle cucine campane si fa bollire leggermente e si condisce con olio, sale e prezzemolo oppure viene lavorato per essere messo sottolio. Ma il carciofo di Paestum fa parte anche di diverse ricette come la pizza con i carciofi, le creme e il pasticcio di carciofi.

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Carciofo di Paestum

Cipollotto nocerino (DOP)

Coltivato nella Valle del Sarno, tra le provincie di Avellino, Napoli e Salerno, in un’area chiamata “agro pompeiano-nocerino”, il cipollotto nocerino ha una storia antica: risale addirittura all’antica Pompei, come testimoniato da diversi i dipinti delLarario del Sarno (un edificio di epoca pompeiana),che ritraggono la compravendita del cipollotto nei mercati locali a confermarne la diffusione e la loro importanza, data anche per le notevoli proprietà benefiche.

È una cipolla a raccolta primaverile, consumata prevalentemente fresca: ha un bulbo tunicato dalla forma cilindrica un po’ schiacciato ai poli, un colore bianco candido sia all’interno che all’esterno, le foglie verdi e un sapore dolce ma intenso. Per il suo sapore particolarmente equilibrato viene mangiata spesso cruda, insieme a insalate verdi o ai pomodori, ma arricchisce anche sughi freschi. Tra le ricette più antiche c’è quella che Lucrezio citava nel suo De Rerum Natura, la Terrina Lucreziana (Patellam Lucretianam): una sorta di zuppa di cipollotti, fatta con liquame (pasta d’acciughe), aringhe affumicate, miele, sale e olio extravergine d’oliva.

Cipollotto nocerino

Castagna di Montella (IGP)

A Montella, comune irpino della provincia di Avellino, la castagna ha dato vita a una tradizione le cui radici risalgono a epoche remote, secondo alcuni storici al VI-V secolo a. C. Si datano infatti al 571 le prime tracce ufficiali della coltivazione della castagna di Montella, quando i Longobardi emanarono la prima legge a tutela del frutto.

Le varietà a cui si fa riferimento quando si parla di castagna di Montella sono la palumminia, per il 90% circa della produzione, e laverdola, che copre il restante 10%. Entrambe le varietà hanno una forma rotondeggiante, dimensioni medio piccole, base pelosa e seme bianco, dal gusto croccante e leggermente dolce. Quando sono fresche le castagne si mangiano tostate sulla brace, ma sono indicate anche per essere seccate: con la farina si possono realizzare diversi piatti, come paste fresche, gnocchi, polente e focacce. I campani le mangiano nel periodo natalizio: ottime nelle minestre invernali oppure cotte al forno, quando diventano un piatto tipico delle feste chiamato castagne del prete.

Castagna di Montella

Conciato romano

Questo conciato romano, a differenza dell'omologo laziale, è prodotto della provincia di Caserta, in tutta l’area del medio Volturno, da Pontelatone a Formicola, da Piana di Monteverna a Castel di Sasso. Proprio quest’ultimo è stato la sede della rinascita di questo formaggio raro e dalle origini molto antiche che stava scomparendo del tutto. La sua lavorazione è particolare e ricorda molto i formaggi di fossa, mentre la conciatura viene fatta con un mix di olio, aceto, peperoncino e pimpinella, un’erba aromatica selvatica. Una volta conciato, il formaggio viene sigillato, in modo da farlo riposare in una condizione anerobica per un periodo che va dai da sei mesi ai due anni. Questo tipo di maturazione regala al prodotto un odore molto pungente e un sapore del tutto peculiare: note vegetali ed erbacee, quasi di frutta matura, lasciano il posto ad una spiccata piccantezza finale nei prodotti più stagionati. Per gustarlo al meglio, i casertani lo mangiano crudo, abbinandolo a confetture di fichi o limoni, al miele di castagno oppure a cotognate particolarmente aromatiche.

Coniglio di fosso dell'Isola d'Ischia

Più che un prodotto tipico è un allevamento peculiare della zona, già in uso dagli inizi XVIII secolo, per cui i conigli, una volta di razze autoctone come il leporino o il sorcino, vengono fatti crescere scavando delle grosse buche nel terreno, di circa due metri di profondità. A loro volta, i conigli scavano cunicoli in cui ripararsi da pioggia e vento. Gli allevatori chiudono le aperture laterali dei fossi, in modo da facilitare la cattura al momento più opportuno. In questo modo i conigli crescono allo stato semi brado, alimentandosi in maniera spontanea, senza mangimi: questo conferisce alla carne un tono maggiore rispetto ai conigli allevati in modo convenzionale, ma anche un sapore particolarmente intenso.

La ricetta del coniglio all’ischitana, piatto delle feste per eccellenza, è di semplice preparazione: la carne del coniglio viene tagliata a tocchi e rosolata con una testa di aglio intera in una padella di rame tradizionale, chiamata sartana. Subito dopo viene trasferito in una pentola di terracotta e sfumato con il vino bianco. Si aggiungono i pomodorini e si lascia cuocere finché la carne non risulta tenera. A cottura ultimata si aggiungono basilico e prezzemolo. Il coniglio si mangia come secondo piatto, avendo cura di conservare il sugo in eccesso con cui si condirà la pasta.

Coniglio di fosso dell'isola di Ischia

Fagiolo zolfariello

Coltivato nell’area dell'acerrano nolano, Campi Flegrei e dei monti di Avella, Montedonico, Tribucco, è un ecotipo locale del legume dalla forma allungata e dalle dimensioni contenute. Di colore paglierino chiaro, è associato alle colture di mais: lo stocco, ovvero l’'infiorescenza maschile posta sulla cima del fusto della pianta, permette al fagiolo di “appoggiarsi”, in modo da non piegarsi. Ha una nota zolfigna che lo rende caratteristico si può mangiare anche fresco, con la prima raccolta, intorno a metà maggio. La gran parte della produzione sarà invece seccata per essere consumata durante l’inverno in zuppe, minestre e nelle mille varianti della tradizionale pasta e fagioli campana.

fagiolo zolfariello

Fior di Latte

Formaggio fresco a pasta filata molto simile alla mozzarella vaccina, da cui si distacca per forma e consistenza della pasta. In Campania è legato a tradizioni gastronomiche antiche e si produce in tutta la regione, ma è particolarmente ricercato il fior di latte prodotto nei territori del Vallo di Diano, di Sorrento, di Agerola (forse il più famoso), dell'Agro Nocerino e dei monti Lattari: fatto con latte di mucche di razze locali, ha un gusto molto deciso, ma allo stesso tempo delicato. Per produrre il fior di latte si utilizza latte vaccino appena munto (massimo 24 ore dalla prima mungitura) e si consuma entro 3 giorni dalla sua produzione. Se ne trovano in commercio di due tipi: fior di latte da pizza, che deve avere una minore quantità di liquidi e grassi, e quello da tavola. Oltre alla pizza, è protagonista di tantissimi piatti della cultura gastronomica partenopea, come la mozzarella in carrozza.

Fior di latte

Friarielli

Le infiorescenze appena sviluppate delle cime di rapa sono diventate quasi un prodotto simbolo della campania, benché vengano utilizzate anche nella cucina pugliese, romana e toscana. Secondo alcune fonti il nome risale allo spagnolo “frio-grelos" (broccoletti invernali), per altre al napoletano friggere, frijere. Sono coltivati in tutte le zone interne della Campania, in particolare nel territorio di Fragola, nell’agro nocerino sarnese e nella Valle del Sele. Da non confondere con i friggitelli, ovvero i peperoni piccoli dolci che i napoletani chiamano puparulille friarielli. La tradizione li vuole cucinati con olio d’oliva, aglio e peperoncino e abbinati alla salsiccia di maiale con cui formano una coppia quasi inscindibile ma che trova diverse declinazioni: come secondo piatto, sulla pizza al forno o come ripieno di quella fritta e, ancora, all’interno di panini e focacce.

Friarielli

Gambero di Nassa di Crapolla o paparandolo

Un gambero raro, quello di Nassa di Crapolla (Plesionika narval), che ama i luoghi oscuri e gli anfratti e che prende il nome dal suo rifugio preferito, la baia di Crapolla, zona di Nassa, a sua volta una frazione di Massa Lubrense: più che una baia, quasi un fiordo. Oltre a Punta Campanella, area marina protetta in cui è situata la baia, lo si può trovare solo a Ustica e Filicudi, all’Argentario e nelle acque di Portofino. È un crostaceo piccolo, dal colore rosa striato di bianco e dal sapore delicato. La sua caratteristica più particolare sono le sue uova, di uno splendido colore blu. Nella cucina campana questoviene spesso utilizzato crudo, condito con limone e aromi, in modo da esaltare il suo aroma fresco e salmastro. In alternativa si può utilizzare anche per primi e secondi piatti, avendo l’accortezza di cuocerlo il meno possibile.

Gambero di Nassa

Limoni (Costa d'Amalfi IGP e femminiello di Sorrento)

Lo sfusato amalfitano, nome comune del limone Costa d’Amalfi, è prodotto nei territori della costiera amalfitana: Amalfi, Atrani, Cetara, Conca dei Marini, Furore, Maiori, Minori, Positano, Praiano,Ravello, Scala, Tramonti, Vietri sul Mare. Sulla costiera, già dall’XI secolo iniziano a spuntare i primi limoneti, talmente belli da essere chiamati “giardini”, ma è dal XVI secolo che Amalfi diventa il punto di riferimento per il commercio di questo prezioso agrume, il limon amalphitanus, portato anche in continenti lontani. Dal colore giallo citrino, ha una forma allungata, la buccia liscia e dimensioni importanti: ogni limone supera, a volte abbondantemente, i 100 grammi. Ha un aroma intenso e frizzante, la polpa succosa e un po’ acida, pochissimi semi. In cucina si utilizza in molti modi, soprattutto per i piatti a base di pesce e i le paste fresche, ma il modo migliore per apprezzare le sue qualità è consumarlo da solo, a fette, aggiungendo un pizzico di sale sopra.

Limone di Amalfi o Sfusato amalfitano

Il limone femminello di Sorrento viene coltivato sulla penisola sorrentina, in particolare nei comuni Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant'Agnello, Sorrento, Vico Equense, nelle isole di Capri e Anacapri. Chiamato anche ovale di Sorrento o limone di Massa, è un agrume dalle dimensioni medio-grosse, dalla polpa giallo paglierino e dal succo particolarmente acido, mentre buccia è morbida e profumata. Si differenzia dallo sfusato non solo per la varietà, ma anche per le tecniche di coltivazione e per le proprietà organolettiche. In cucina si utilizza su molte preparazioni differenti: dagli antipasti ai primi, dai secondi ai contorni, passando per i dolci, come il babà al limone. Entrambe le varietà vengono utilizzate per realizzare il famoso limoncello napoletano, dando vita così a prodotti leggermente differenti per intensità, aromi e sapore.

Mela annurca campana (IGP)

La “Mala Orcula” di Plinio Il Vecchio, prodotta direttamente dall’orco degli inferi: è la mela annurca campana, oggi diventata un’eccellenza a marchio IGP. Nel Naturalis Historia, infatti, già si parla delle coltivazioni di mela dell’agro puteolano, riprese poi anche nel Pomarium di Gian Battista Della Porta. Da qui il nome di “annorcola”, poi diventato annurca in tempi moderni. Sono due le varietà che ricadono sotto questa etichetta: la sergente, dal sapore acidulo e la buccia striata giallo-verde, e la caporale, dolce e dal colore rosso puntinato di bianco. Infine ci sono delle varianti delle due specie che possono arrivare anche al mezzo chilo di peso e vengono chiamate “cape ‘e ciuccio”. Con queste mele, oltre alla macedonia, si preparano diverse ricette: dalle crostate ai sorbetti, dalle insalate alle torte. Sono spesso usate per aromatizzare piatti di carne di maiale, di cinghiale e la selvaggina. Un classico del fine pasto napoletano è il Nurchetto: liquore fresco e profumato a base di mela annurca campana.

Mela annurca campana

Melanzana lunga di Napoli

La cucina napoletana senza melanzane sarebbe impossibile da immaginare: sono così tante le ricette basate su questo ortaggio da non poterle quasi contare. È la regina indiscussa delle tavole partenopee: dalle parmigiane alle melanzane a funcitiell (a funghetto), dalla pizza fritta alle melanzane a barchetta, passando per le polpette di melanzane e per la “cianfotta”, versione napoletana della ratatouille. Questo anche grazie al sapore particolare, un po’ acidulo e leggermente piccante. La forma è snella e sottile, il colore nero-marrone tendente al viola, con il peduncolo allungato e l’apice tondeggiante.

Melanzana lunga di Napoli

Mozzarella di bufala (DOP)

Uno dei prodotti caseari che ha reso famosa la Campania nel mondo, dal sapore e dalla consistenza unica. Il suo nome deriva dal termine mozzare, operazione che ogni casaro fa per dividere la cagliata filata in tante mozzarelle singole. Viene prodotta solo con latte intero di bufala di razza mediterranea italiana, ogni capo deve essere iscritto alla anagrafe e allevato semilibero, al pascolo aperto. Il latte, che ha un determinato contenuto minimo di grassi, deve essere consegnato entro 16 ore dalla mungitura e può arrivare dalle provincie di Caserta e Salerno, da alcuni comuni della provincia di Benevento (Limatola, Dugenta, Amorosi) e da alcuni comuni della provincia di Napoli (Acerra, Giugliano in Campania, Pozzuoli, Qualiano, Arzano, Cardito, Frattamaggiore, Frattaminore, Mugnano di Napoli). Una volta prodotte, le mozzarelle vengono messe in vasche con acqua fredda perché si rassodino e, successivamente, in altre vasche con acqua e sale per dare un tocco di sapidità. Varia da 10 grammi (per perline, ciliegine e bocconcini dalla forma rotondeggiante) a fino oltre 3 chili per trecce, ma si trovano anche in altri formati, come i nodini. Il suo colore è bianco e omogeneo, con una superficie composta da diversi strati, ha un profumo di latte intenso e un po’ muschiato, mentre in bocca risulta lattiginosa e sapida, un po’ grassa sul finale. Solitamente si mangia fresca, mentre il suo uso sulla pizza è molto discusso ma sempre più diffuso.

Mozzarella di bufala campana dop

Nocciola di Giffoni (IGP)

Una nocciola antichissima, le cui prime tracce risalgono al II secolo a. C. La nocciola di Giffoni è tipica dell’area salernitana, soprattutto della valle dell'Irno e nella zona dei Monti Picentini, delineata dal perimetro di 12 comuni: Acerno, Baronissi, Calvanico, Castiglione del Genovesi, Fisciano, Giffoni Sei Casali, Giffoni Valle Piana, Montecorvino Pugliano, Montecorvino Rovella, Olevano sul Tusciano, S. Cipriano Picentino, S. Mango Piemonte. Ha una forma rotonda e polpa bianca, la pellicola interna sottile e un sapore molto aromatico, molto compatta, per questo ideale per la tostatura. Si raccoglie abbastanza presto, intorno alla seconda metà di agosto e si porta a essiccazione. È molto richiesta in ambito dolciario per farne creme, torroni, gelati o abbinarla al cioccolato, ma viene impiegata anche nei primi piatti e nei distillati, oppure consumata semplicemente come snack.

Nocciola di Giffoni

Noce di Sorrento

Quando si parla di noce di Sorrento non ci si riferisce ad una specifica varietà, ma a una serie di biotipi che si sono sviluppati nell’area della penisola sorrentina. I più importanti sono due, il primo dalla forma allungata e leggermente appuntito, il secondo più piccolo e tondeggiante. Si raccoglie fra settembre e ottobre e si mette a seccare sui graticci all’aperto, in zone ben ventilate. Negli ultimi anni, dalle coltivazioni strettamente legate alla penisola sorrentina, l’area di produzione della noce di Sorrento si è spostata sempre di più verso l’agro nolano, palmese, sarnese, l’area dei Campi Flegrei, i comuni del vesuviano, la valle di Lauro, la valle Caudina, la pianura di Caserta e la valle dell’Irno. Dal gheriglio bianco crema e dal sapore spiccato, è una noce che si estrae facilmente senza romperla, cosa che la rende molto richiesta dall’industria dolciaria. Ma si utilizza anche per preparare sughi da abbinare a paste fresche o con i secondi a base di carne. Con le noci ancora acerbe, inoltre, si prepara il celebre Nocino, un liquore scuro e molto aromatico.

Noce di Sorrento

Nzogna nella vescica

Lo sugna è un grasso animale utilizzato un po’ in tutto il sud Italia per friggere, per panificare o preparare dolci, come insaporitore dei piatti a base di carne. Nella provincia di Avellino ha una preparazione particolare: la ‘nzogna (nome dialettale dello sugna) si ricava dalle viscere del maiale, tagliando a tocchetti la carne e facendola cuocere lentamente su una pentola di rame stagnato, fino ad ottenere il distacco fra parte liquida e parte solida. A questo punto il grasso viene separato dalla carne e versato nella vescica: una volta chiusa, sarà appesa al soffitto per un periodo che va dai 6 agli 8 mesi, lasciandola riposare in un ambiente asciutto e fresco. Prima di essere utilizzata, la vescica viene lavata con acqua e aceto e aromatizzata con scorze di arancia o limone, poi viene fatta solidificare immergendola in un secchio di acqua ben fredda. Spesso in Campania il termine‘nzogna viene utilizzato per indicare sia la sugna che lo strutto: entrambi grassi animali derivati dal maiale, ma prelevati da zone diverse. La sugna è il grasso che si toglie via dalle viscere del suino, nella zona dei reni, ed è quasi privo di impurità, dalla consistenza morbida e dal sapore molto delicato e non ha bisogno di trattamenti particolari. Lo strutto, invece, si ottiene dalla fusione del grasso del maiale prelevato dalla zona dorsale. Il liquido residuo ha un livello alto di impurità: deve essere filtrato e lasciato raffreddare lentamente.

Nzogna nella vescica

Papaccella napoletana

Per molti napoletani, l’odore agre della papacella sottolio innesca immediatamente ricordi delle feste: è immancabile sulle tavole partenopee, oltre ad essere uno degli ingredienti principe dell’insalata di rinforzo, che si consuma il 26 dicembre. È un peperone piccolo e leggermente schiacciato, dalla polpa carnosa e dalla forma costoluta. Ha un sapore intenso, ben definito e dolce, ma in alcune zone del napoletano vengono coltivate anche le versioni piccanti. La papacella viene coltivata principalmente nel territorio vesuviano, in particolare nel territorio del comune di Brusciano. La sua vasta gamma di colori e sfumature - dal rosso scuro a quello più brillante, dal verde scuro al giallo-verde, fino ad una tonalità vinata - crea uno spettacolo unico sui banchi dei mercati napoletani. Oltre alle preparazioni sottolio o sott’aceto, la papacella viene spesso inserita nei soffritti per preparare piatti a base di maiale, oppure farcita e cotta al forno.

pappacella napoletana

Pasta di Gragnano (IGP)

Già nel 1861 gli stabilimenti di Gragnano erano conosciuti per la produzione di pasta di alta qualità, benché questa fosse ancora un alimento poco consumato. La sua diffusione nel secolo precedente era dovuta alla carestia che aveva colpito il Regno di Napoli fra il 1763 e il 1764, che aveva spazzato via le scorte alimentari e in particolare di riso. L’appellativo di città dei maccheroni, invece, Gragnano l’ottenne grazie a Ferdinando II che il 12 luglio 1845 diede mandato ufficiale per rifornire la dispensa della corte ai produttori gragnanesi.

La pasta, prodotta esclusivamente nel territorio del comune di Gragnano, è fatta con semola di grano duro e acqua della falda acquifera locale. Il basso livello di calcare di queste acque è un elemento fondamentale per la qualità del prodotto finale. Dopo l’impasto, avviene la gramolatura: la massa viene amalgamata e resa omogenea con una macchina chiamata appuntogramola. L'impasto viene poi “estruso”, cioè passa attraverso la macchina trafilatrice in bronzo, per ottenere una pasta lievemente rugosa, che assorbirà meglio sughi e condimenti. Le trafile, che appartengono alle famiglie di pastai gragnanesi da secoli, danno la forma alla pasta. Dopo questo passaggio la pasta viene messa ad essiccare, ad una temperatura che varia fra i 40 e gli 80 gradi secondo il formato, per un periodo compreso fra le 6 e le 60 ore.

Spaghetti di Gragnano e colatura di alici

Percoca giallona di Siano (provincia di Salerno)

Chiamata anche giallona di Siano, la percoca di Siano è una varietà particolare di pesca prodotta nella vallata del Siano, in provincia di Salerno. Dalle dimensioni contenute, ha una forma rotonda e colore giallo-rosato: la polpa è giallo chiaro, la consistenza compatta e il sapore intenso. Si raccoglie fra la fine di luglio e i primi di agosto. In gastronomia si consuma immersa in brocche di ceramica con vino rosso o bianco, preparazione oggi chiamata comunemente “sangria napoletana”. A Siano la famosa accoppiata viene celebrata in una sagra che mette al centro anche la carne di capra: la “Sagra della braciola di capra e della percoca sianese nel vino”.

Percoca giallona di Siano

Pomodori (San Marzano DOP, cuore di bue di Sorrento, piennolo del Vesuvio)

Un’autentica delizia con un nome piuttosto lungo: pomodoro di San Marzano dell'agro sarnese-nocerino DOP. Il nome proviene dalla città di San Marzano sul Sarno, dove questa varietà si coltiva dalla fine del ‘700 circa. Secondo gli storici sarebbe stato il viceré del Perù José Fernando de Abascal y Sousa a regalarne alcuni semi al re di Napoli, Ferdinando I di Borbone, che l’avrebbe poi diffuso in tutto il regno. Grazie al terreno vulcanico ricco di nutrimenti, la coltivazione divenne particolarmente importante per qualità e quantità a San Marzano, che da quella data si lega indissolubilmente al prodotto. Quasi privo di semi, la sua forma è allungata, la polpa compatta e carnosa, mentre il sapore è agrodolce: queste caratteristiche lo rendono ideale per la preparazione di pelati e conserve di vario tipo. Ma si utilizza anche per preparare ottimi sughi freschi. Attualmente si coltiva nell'agro sarnese-nocerino, in provincia di Salerno, nell'acerrano-nolano, nell’area pompeiana-stabiese, in provincia di Napoli, nel montorese, in provincia di Avellino, per un totale di 41 comuni.

Pomodoro San Marzano

Il pomodoro a cuore di bue, detto anche pomodoro sorrentino, è un prodotto dalle grandi dimensioni, dalla forma rotondeggiante ed evidenti costole laterali. Il suo colore è rosso chiaro, quasi tendente al rosa, con leggere sfumature verdi quando è poco maturo. La polpa è carnosa, compatta, dal sapore delicato e dolce. Si coltiva in una ristretta area collinare della Penisola, chiamata colli sorrentini, fra i comuni di Piano di Sorrento e S.Agnello. In Campania si mangia quasi esclusivamente in insalata, grazie alla sua consistenza carnosa e al suo sapore che ben si adatta agli accostamenti con altri ingredienti crudi.

Il pomodorino del piennolo è un prodotto molto importante per i cittadini di Napoli, tanto da avere una sua raffigurazione nel tradizionale presepe le cui statuette vengono vendute su via San Gregorio Armeno. Il suo nome deriva dalla parola piennolo, ovvero grappolo: i grappoli si raccolgono interi e si dispongono su un filo che forma un cerchio, in modo da comporre un grappolo gigante. Metodo di conservazione del tutto peculiare, i grandi grappoli vengono appesi in locali ben aerati, in modo che i pomodorini si conservino fino alla primavera successiva. Man mano che il tempo passa il prodotto perde la sua consistenza, ma acquista un sapore unico, diverso da quello del pomodoro appena raccolto. Questa capacità di conservarsi è dovuta alla composizione del prodotto e alle condizioni geologiche e climatiche su cui cresce: l’elevata concentrazione di zuccheri e acidi fanno si che durante lunga conservazione nessuna delle sue qualità organolettiche subisca alterazioni. Si produce nel territorio del complesso vulcanico del Somma-Vesuvio.

Allo stato fresco il pomodorino del piennolo ha un colore rosso acceso, che si dice sia dato dalla ricchezza dei terreni vulcanici su cui cresce, una forma tendenzialmente ovale e un sapore dolce-acidulo, intenso e preciso. Il pomodoro “conservato”, come lo chiamano i napoletani, diventa rosso scuro, il sapore diventa più acidulo e si intensifica notevolmente l’aroma. Il pomodoro del piennolo si usa per preparare sughi saporiti e, in particolare per condire gli spaghetti alle vongole.

Pomodoro del Piennolo del Vesuvio

Prosciutto di Venticano

Un prosciutto crudo dal sapore dolce e delicato, lavorato interamente a mano: è il prosciutto prodotto nel Comune di Venticano, Irpinia. La nascita di questo prodotto, più che all’allevamento del maiale, attività tradizionale della provincia di Avellino, si deve alla disponibilità del sale: il paese, infatti, ha sempre rappresentato uno snodo fondamentale della via del sale nostrana, che collegava Napoli alle saline di Margherita di Savoia. Già dalla fine dell’800 le famiglie venticanesi erano specializzate nella lavorazione e nella stagionatura di salami e prosciutti: conoscenze che, tramandate di generazione in generazione rappresentano ancora un patrimonio culturale fondamentale per la zona.

Il prosciutto di Venticano si produce con cosce di maiali appartenenti alle specie Large White, Landrace, Antica razza casertana, e stagiona per almeno 18 mesi. Il suo colore è rosato, con striature di grasso bianche e, malgrado la lunga stagionatura, la sua consistenza risulta morbida e vellutata. Si mangia prevalentemente come antipasto o all’interno di focacce e panini, ma molti chef lo inseriscono oggi anche in ricette creative. Per celebrarlo i venticanesi ogni settembre danno vita alla Sagra del prosciutto, vino e agnello.

Prosciutto di Venticano, azienda Ciarcia

Provolone del Monaco (DOP)

Prodotto nell’area dei Monti Lattari, penisola sorrentina, Il provolone del Monaco è un formaggio a pasta filata prodotto a partire dal latte crudo della vacca di razza Agerolese. Ha una forma leggermente allungata, con un peso che varia tra i 2 chili e mezzo e gli 8 chili. La pasta interna è color crema tendente al giallo, elastica, uniforme e compatta, con le tipiche occhiature (chiamate a “occhio di pernice”), mentre il suo sapore è dolce e burroso, con un leggero retrogusto piccante. Viene stagionato per almeno 6 mesi nelle grotte della penisola sorrentina. La storia del suo nome è legata ai casari che, dalle zone di Sorrento, ogni giorno sbarcavano al porto di Napoli per vendere i propri prodotti, con dei mantelli che ricordavano queli dei monaci per ripararsi dal freddo del mattino. Solitamente si mangia da solo, oppure accompagnato da miele e marmellate: la versione più stagionata si può anche grattugiare sui primi piatti a base di pasta oppure inserire nel ripieno di involtini e polpette.

Provolone del Monaco

Ricotta di bufala campana (DOP)

Ottenuta dal siero del latte della bufala, la ricotta di bufala campana Dop si produce anche al di fuori della regione, in Molise, Lazio e Puglia. Ha un colore bianco porcellana ed è priva di croste esterne: la sua consistenza è cremosa, il sapore fresco, delicato e dolce. Può essere fresca, da consumare entro pochi giorni dalla produzione, oppure omogeneizzata attraverso uno specifico trattamento termico, grazie al quale diventa conservabile per 3 settimane. Si mangia prevalentemente cruda, spalmata sul pane, o in abbinamento a verdure sottaceto, creme piccanti e chutney agrodolci.

Ricotta di bufala, Caseificio delle rose

Scialiatielli

Anche in questo caso, un formato di pasta molto rappresentativo della cultura gastronomica campana, in particolare di quella amalfitana. Non è una ricetta “tradizionale” in senso stretto, visto che il formato è stato inventato dallo chef Enrico Costantino nel 1978. Il nome deriva dall’unione di “scialarsi” (divertirsi/godere) etiella (padella). Sono striscioline di sezione rettangolare, più corte e larghe degli spaghetti classici, fatte con farina, acqua o latte, sale, formaggio grattugiato, basilico tritato. Se andate ad Amalfi non potrete evitare di gustare un delizioso piatto di scialatielli all’amalfitana, con gamberi, vongole veraci, tartufi, cozze, seppioline, pomodorini del piennolo, olive verdi, prezzemolo, aglio e capperi.

Scialatielli con frutti di mare

Tartufi (Nero di Bagnoli Irpino, Nero di Colliano)

Già conosciuto dal 1700, il tuber mesentericum Vittad. è un tartufo nero ordinario anche conosciuto come tartufo di Bagnoli Irpino: ha una forma regolare, una polpa di colore giallastro, mentre all’esterno è nero o brunastro. Il sapore è caratteristico e leggermente amarognolo, ha un aroma molto intenso e penetrante che rimane anche dopo la cottura ed è particolarmente adatto all’abbinamento con primi piatti e carni. La sua raccolta è consentita da settembre a fine gennaio nei territori attorno alla cittadina della provincia di Avellino. A Bagnoli Irpino, ogni anno si celebra questo prodotto nella Sagra della castagna e del tartufo, nell’ultimo week end di ottobre. Tra i piatti più tipici della cittadina, l’insalata bagnolese, fatta con tartufo, acciughe, olive, peperoni, sale e olio, e il“sacco del brigante”, dei sacchettini di vitello cotti sulla griglia e ripieni di tartufo e caciocavallo.

Il tartufo di Colliano cresce invece nel comprensorio dell’Alto Sele, in provincia di Salerno e, in particolare, nei territori intorno a Colliani, Valva e Laviano. La forma è regolare, con una fossetta al centro: nero e rugoso all’esterno, giallastro o bruno all’interno. Matura da ottobre ad aprile, periodo in cui avviene la raccolta grazie alle spedizioni dei tartufai e dei loro cani. Sulle tavole di Colliano fra le ricette più amate con questo tartufo troverete iravioli al tartufo nero e funghi porcini e i calzoncelli di patate con tartufo nero.

Tartufo nero di Bagnoli

A cura di Francesca Fiore

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