Fermentazione. Conversazione con il guru americano Sandor Ellix Katz

26 Ott 2017, 10:00 | a cura di

Si chiama Sandor Ellix Katz e negli Stai Uniti è considerato il maestro indiscusso delle fermentazioni. Lo abbiamo incontrato per una due giorni in Toscana per parlare di kombutcha, kefir, yogurt, pasta madre. Ecco cosa ci ha spiegato

L’attività batterica per millenni è stata vista come la mano di Dio sulla terra. Una bacchetta magica invisibile, che fa diventare l’uva vino, l’orzo birra: una magia che fa durare il cibo tutto l’inverno in posti in cui è impossibile avere coltivazioni nei lunghi mesi troppo freddi e che fa gonfiare l’impasto di acqua e farina per il pane. Poi è arrivato Pasteur e ha tolto la maschera ai batteri: sono apparsi i tanti microorganismi che si divertivano a fare giochi alchemici. Così è cominciata l’era della disinfezione, dell’igiene, delle selezioni batteriche, dei vaccini… ma oggi, dopo 150 di lotta ai batteri e di loro iper-selezione, siamo nel bel mezzo di una nuova rivoluzione: quella che inneggia al “selvaggio”.

Sandor_Ellix_KatzSandor Ellix Katz

Sandor Ellix Katz

Vogliamo vini fermentati dai lieviti (batteri) autoctoni e spontanei, birre il più naturali possibile, cibi (tra cui i formaggi) selvaggi. Per capirne qualcosa di più, abbiamo passato due giornate in Toscana con Sandor Ellix Katz, un maestro della fermentazione selvaggia di verdura e frutta. Il suo nome in Italia dice poco, anche perché i suoi tanti libri in inglese non sono stati ancora tradotti. Ma per il piccolo mondo dei fan dei cibi a fermentazione spontanea, Katz è una rock star: così lo definisce il New York Times, che ha dedicato un cortometraggio a questo signore che è un guru suo malgrado. Sono oltre 25 anni che Katz si occupa di fermentazioni ed è venuto in Italia per raccontare le sue esperienze presso la Komunità Errante Kefir guidata da Annalisa Nardi e Tomáš Jelinek: un workshop intensivo di due giorni per apprendere le regole della fermentazione fatta in casa e rendersi conto che di regole… non ce ne sono affatto.

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Lui, newyorkese di famiglia ebrea, è una persona molto attiva politicamente e lavora nel campo della comunicazione. Quando scopre di avere l’HIV, decide di cambiare vita e si trasferisce in Tennessee, all’interno di questa comunità comincia ad appassionarsi ai fermenti. È il suo modo per combattere la malattia: una vita sana, un’alimentazione sana e gustosa che fa bene al corpo e allo spirito. “Per me la fermentazione è una questione soprattutto di gusto”sorride Sandor “Io credo ai medici e alla medicina tradizionale, così come a quella alternativa: punto a prendere il bello da tutto e non riesco a credere che ci sia un solo modo di pensare e di vivere. Il limite è solo il cielo: è il mio motto. E le mie ricette, i miei insegnamenti non sono dogmi: sono condivisione di esperienze, stimoli”. Probabilmente non c’è cibo fermentato commestibile sulla terra che lui non abbia assaggiato, ma non si dichiara un’autorità.

 

I benefici della fermentazione

Perché la fermentazione è una pratica che rende il cibo migliore? “Perché subisce una specie di pre-digestione da parte dei batteri: il corpo assorbe e digerisce con meno fatica questo tipo di cibo”spiega Sandor “E questo cibo è vivo e arricchisce la flora batterica nel nostro sistema digerente. Come la biodiversità è importante per l’equilibrio della terra, il microcosmo del nostro corpo sta meglio con una flora batterica ricca: il sistema immunitario ne trae beneficio”. Su questi temi esistono tanti studi e posizioni contrastanti. I più entusiasti sostengono che la flora batterica che vive nel nostro corpo influisca anche sullo stato d’animo, sulla psiche. Ma Sandor non si sbilancia: “Potrebbe aiutare la digestione, potrebbe aiutare il sistema immunitario, potrebbe aiutare a prevenire il cancro… Ma se avessi un tumore al cervello mi farei curare dai medici”. E precisa meglio: “Non credo che il cibo vivo ci faccia più belli o più giovani: se fosse vero non avrei i capelli così grigi a 55 anni!”

In tempi di confronto serrato con il passato e le tradizioni (in primis in gastronomia) c’è da dire che la fermentazione è la tecnica più antica di preservare il cibo. I nostri antenati delle caverne sapevano far fermentare il miele mischiandolo con l’acqua. E ci sono diversi antropologi che ritengono che il vero motivo per cui l’uomo passò dal nomadismo alla vita sedentaria non fu l’agricoltura, ma la volontà di fare bevande alcoliche, quindi il desiderio di avere un’altra dimensione della realtà. Se il cibo fermentato non è la birra, siamo comunque vicini. In un mondo, quello fino a poco meno di 200 anni fa, dove non ci sono frigoriferi, la fermentazione è di estrema importanza: serve a prolungare la disponibilità di cibo. In paesi con condizioni climatiche proibitive (Europa del Nord o Estremo Oriente) la fermentazione è una parte molto importante della tradizione culinaria. Non è un caso che proprio in questi paesi, ci siano le maggiori tradizioni legate alla fermentazione. L’esempio più classico è il latte: è un elemento facilmente degradabile, ma diventando yogurt, kefir, formaggio, allunga la sua vita da giorni ad anni.

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Aceto di kiwiAceto di kiwi

La relazione uomo-batterio

Tutto – dalla terra alle verdure, dalle rocce al corpo umano – è colonizzato dai batteri; la colonia batterica che si trova nel posto giusto al momento giusto causa fermentazione gustose: l’uomo, valutandone il risultato, influenza l’ambiente e lo modifica per avere il giusto habitat per i microorganismi “positivi” che tramanda di generazione in generazione. Nasce così una “partnership” uomo-batterio di cui entrambi beneficiano: alcuni batteri (e funghi) si garantiscono un futuro, l’uomo si bea del gusto e delle proprietà benefiche del cibo lavorato dai batteri (anche se non se ne rende sempre e immediatamente conto).

 

Storie di resistenza alimentare

Oggi, mangiar bene è diventato anche una forma di resistenza all’omogeneizzazione che la globalizzazione per alcuni aspetti comporta. Katz, nel suo libro Fermentation will not be microwaved, parla dei movimenti underground americani che si oppongono a un sistema sanitario che tende a omologare, monopolizzare, distruggere tutto ciò che sia vicino al mondo dei batteri. Katz vede la pratica della fermentazione per il cibo come una forma di rivoluzione: la rivincita del piccolo gruppo e dell’individuo di fronte ai grandi. Ma si può davvero salvare il mondo (o promuoverne uno diverso) attraverso la fermentazione? Una volta Ken Loach disse, presentando un suo film: “L’arte non può cambiare il mondo, il mondo lo possiamo cambiare solo prendendo una posizione”. Ecco, nella filosofia di Katz, scegliere di fermentare è prendere una posizione: “La fermentazione”spiega “cuoce il cibo senza aver bisogno di nessuna fonte di energia, lo preserva e ne allunga la vita, quindi è un ottimo metodo per diminuire l’impatto ecologico di ogni singolo individuo sulla terra: se questa tendenza diventasse di massa, non è azzardato pensare che potrebbe far diminuire i numeri dei frigoriferi nei supermercati o nelle case, l’uso di gas e di piastre a induzione…”. Insomma, per quanto riguarda l’America, Katz si muove all’interno di una cultura underground del cibo, tendenzialmente illegale (o fuori da ogni circuito organizzato) ma buono e sano.

verdure fermentateVerdure fermentate

Dall'Oriente a casa nostra

Katz, in realtà, rimette i batteri al loro posto: in mezzo alla nostra vita, dove da sempre sono, sono stati e saranno. “Sono i nostri partner, i nostri amici del cuore”sorride “Quando gli forniamo l’ambiente giusto, ci accudiamo a vicenda”. E ne parla in termini umanizzati, ovvero dal nostro punto di vista di uomini: “La fermentazione è come una danza” si entusiasma “Il fungo Aspergillus orza, quello che crea il koji, lievito indispensabile dei fermenti orientali come la salsa di soia o il miso, mette in scena una vera e propria danza, con un suo ritmo e una sua coreografia: comincia con piccole bollicine effervescenti, si velocizza, matura, rallenta e alla fine si placa”. Ma al termine del gioco, il cibo è più facilmente assimilabile e vitamine e minerali diventano maggiormente biodisponibili. “In alcuni casi la fermentazione aggiunge anche valori nutrizionali, come per le vitamine B e K” dice Sandor “Ne è un bell’esempio il natto giapponese: soia fermentata dall’attività di una variante di Bacillus subtilis che si consuma quando è vicina alla putrefazione”. Ma non fa orrore? “Certamente non è una passeggiata affrontare il natto”sorride Sandor “Occorre un palato educato, ma è decisamente anche uno cibi più nutrienti e benefici del mondo e contiene un livello record di vitamina K proprio grazie alla fermentazione. Ci sono studi che dimostrano che grazie all’elevato contenuto di vitamina K, il natto non solo aiuta a prevenire l’osteoporosi, ma in alcuni casi la cura proprio”.

 

a cura di Elvan Uysal

 

Articolo uscito sul numero di settembre 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

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