Sciacchetrà. Vino passito eroico, simbolo delle Cinque Terre

27 Mag 2020, 15:58 | a cura di
Terra aspra, stretta tra la roccia e il mare, vigne a gradoni a picco sull’acqua salmastra. Lavorare i campi qui è un atto di puro eroismo e attaccamento alle radici. Nasce qui lo Sciacchetrà, un vino dolce estremo, tradizionale e prezioso, da uve autoctone.

L’approdo, seppur via terra, è un colpo al cuore. Siamo, a livello paesaggistico, in uno dei luoghi più spettacolari d’Italia. E del Mondo. La strada procede tortuosa, serpeggiante, s’impenna poi ridiscende con la montagna da un lato, il verde che si apre in finestre dall’altro: e là in fondo il mare, come una vertigine, l’orizzonte che si impenna a ridimensionare il cielo. Che rimane comunque infinito.

Sciacchetrà vino passito

Azienda vinicola Cheo

Le Cinque Terre

Le Cinque Terre sono questo, quindi, e non solo i paesini-gemma che assai meno affascinerebbero senza il quadro d’intorno: una natura antropizzata, roccia domata e terra coltivata nei secoli anche laddove oserebbero soltanto i matti, o gli eroi; muretti a secco che terrazzano i crinali, cian (in dialetto piani, gradoni) che da tempo immemore accolgono la vite e l’ulivo nei territori di Monterosso al Mare, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore, borghi racchiusi tra Punta Mesco e Punta di Montenero nella Rivera spezzina, in Liguria. Una lingua di terra assediata dalle vette, fino agli ottocento metri di altitudine a due passi del mare, per un contesto e un microclima schizofrenico, variabile anche alla vista, zone più umide e altre spazzate dai venti, costa ripida e disegnata da capi e insenature che proseguono a sud fino a Portovenere, con davanti l’isola di Palmaria, per chiudersi nella sterzata del golfo di La Spezia.

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Sciacchetrà vino passito

Azienda vinicola Cheo

Con che uve si produce lo Sciacchetrà

Il vino totem delle Cinque Terre è lo Sciacchetrà, un dolce nettare, termine abusato ma in questo caso dovuto. Si tratta di un passito singolare, un portento, unico per genesi e risultato, prodotto in primis con uve bosco, più albarola e vermentino, lasciate ad appassire lontano dal sole, in zone areate, per oltre 70 giorni. Dopo il primo di novembre (per tradizione, ma al momento anche da disciplinare), si diraspano i grappoli con cura, talvolta selezionando a mano gli acini che vengono pigiati e vinificati in vasche d’acciaio, a contatto con le bucce; il vino è spesso affinato in piccole botti, talvolta in acciaio o in anfora, commercializzato in specifiche bottiglie affusolate da 375 ml. La resa di produzione si attesta sul 25%: oggettivamente ne vale la pena, culturalmente pure, per gli appassionati non vi è alcun dubbio ma sotto il profilo commerciale è una sfida difficile quant’è difficile questa terra.

Le caratteristiche dello Sciacchetrà

Dorato, ambrato con riflessi cangianti, intenso al naso con sentori di miele, armonico e persistente in bocca, di struttura decisa e finissima trama tannica, ha ingresso ammaliante e finale sapido di mare, retrogusto di mandorla e fichi secchi, animo evocativo e poetico; “quel fiero Sciacchetrà che si pigia nelle cinque pampinose terre”, come scriveva D’Annunzio, sembra mutuare il nome da shekar, termine ebraico che identifica una bevanda da offrire a Dio, eppure in dialetto ligure rievoca Sciac, ovvero schiaccia, pressa l’uva, e Tra, ovvero tira, tirala via, mettila nella botte e dimenticala lì, che il tempo non può farle che bene.

Sciacchetrà vino passito

La Cantina Sassarini

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La Cantina Sassarini

La Cantina Sassarini, a Monterosso al Mare, è custode di questa storia. Le fondamenta le ha poste Natale Sassarini nel 1968, lungimirante nell’intuire le potenzialità dei vini della zona, basti pensare che la DOC arrivò cinque anni più tardi. Costruì la sua cantina e strinse attorno a sé una rete di viticoltori che coltivavano le proprie terre, attualmente sono 11 gli ettari complessivi. “Il modello del conferimento ha qui un’accezione decisamente positiva: garantire l’acquisto delle uve permette ai singoli contadini, proprietari di piccoli appezzamenti, di continuare nel tempo ad accudire il territorio con il sostegno necessario”. È adesso il figlio di Natale, Giancarlo, profilo timido ma sguardo attento, passo tenace, a impugnare il timone aziendale: il traguardo del cinquantesimo anniversario della cantina, due anni fa, ha assunto il valore di “una pietra per consolidare una tradizione enoica delle Cinque Terre, che sino ad oggi è mancata”.

Il ruolo economico e sociale della cantina

I muretti a secco sono l’icona territoriale, ma la loro funzione non è certamente decorativa, anzi, “reggono una struttura unica al mondo”, il reticolo di uliveti e vigneti che altrimenti franerebbe giù. “L’abbandono delle campagne aveva segnato le decadi fino agli anni Novanta, la terribile alluvione del 2011 ha poi piegato le gambe a chi investiva per rilanciare la viticultura”. Così, il ruolo economico ma anche civile, sociale, di una cantina come questa (detiene l’11% della quota di consumo, mentre il 50% appartiene alla Cantina Cinque Terre, di cui diremo più avanti) diventa centrale. “Ci sono progetti per la salvaguardia ma è tutto affidato ai viticultori eroici, che non mollano ma anzi ripartono a ogni frana, a ogni sasso caduto”. Bosco, albarola e vermentino sono varietà complicate come questa terra, e infatti stanno bene lì, sui loro gradoni baciati dal sole e schiaffeggiati dal vento, profumati dal mare. “Negli ultimi anni si è investito molto sui vigneti, perché è da lì che si comincia a fare un vino di livello”, comunque sia la cantina è moderna e adeguata, tirata a lucida in una impeccabile pulizia.

Le quattro tipologie di Sciacchetrà

È così che si differenziano quattro tipologie per il Cinque Terre bianco, stesso uvaggio dello Sciacchetrà versione secca, in etichetta il cangiare degli orizzonti locali: il Bucce è sapido e agrumato, con note di grano, fermenta tre giorni sulle sue bucce e affina per almeno dieci mesi sui lieviti, mentre il Campo al Sole è più fresco e fruttato, con echi speziati. Per lo Sciacchetrà il percorso segna una ricerca qualitativa che sappia coniugarsi a un prezzo accessibile, “per tradizione è il vino della domenica, della festa, il mercato lo aveva purtroppo mistificato, allontanandolo dalla nostra cultura”, si pensi al periodo in cui era tollerata l’aggiunta di alcol; “a noi piacerebbe potessero berlo un po’ tutti, come simbolo di appartenenza a questa terra”. Classici aromi di albicocca e agrumi canditi, ma anche erbe officinali, ingresso dolce e sapida complessità nel sorso. E la riproposizione, a breve in commercio, di una versione Riserva con un più lungo affinamento e un’evoluzione da scoprire.

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Bartolomeo Lercari e Lise Bertram

L'azienda vinicola Cheo

Si arriva a Vernazza per conoscere l’unica azienda vinicola del borgo, con le vigne di Lise Bertram e Bartolomeo Lercari che dalla torre del castello al campanile della chiesa sembrano abbracciare il mare. Lei, danese, laureata in orticultura con un dottorato in agronomia, lui che dopo studi simili diventa docente, impara e insegna in giro per il mondo per poi tornare qua, nella campagna abbandonata che reclama un custode. “Mio nonno viveva in mare, come molti uomini, mentre era nonna a occuparsi dei vigneti e della mescita, degli ulivi; le mie estati scorrevano al molo di Vernazza, al sole, nuotavo e pescavo… un po’ di caccia alle donne, ma ero timido”, ed è difficile immaginarlo parlandoci adesso, ironico e spigliato, sguardo affabile ma ficcante. “Stavo meglio in vigna ad aiutare mio padre Ercole”, dice Bartolo. La cosa gli è tornata utile nel 2004, quando con Lise, partendo da un appezzamento di famiglia, hanno dato vita a Cheo, nomignolo con cui si appellava la famiglia Lercari, di nobili origini genovesi. “Quando ero ragazzo il trenino per la vendemmia non c’era, la si faceva a mano, lunga e spossante, l’uva arrivava in cantina col contagocce, impossibile trarne un buon vino”.

Le due versioni del Cinque Terre Doc

Oggi il corso di Cheo è tutto impostato sulla qualità. Presenza assidua in vigna, lavorazioni manuali e pratiche non invasive, “uve eccellenti come primo requisito per ottenere un vino di livello”. Fin dai calici che unirono la coppia, Bartolo e Lise stravedevano per i vini profumati, da qui una predilezione per il vermentino, di cui hanno selezionato quindici cloni diversi, che spingono fino alle soglie concesse dal disciplinare nei bianchi CheO e Perciò. Sono due versioni del Cinque Terre Doc, il secondo con l’autoctono piccabon al posto dell’albarola, che diviene invece protagonista nel Mavà: “L’albarola ha grappoli pignati, con buccia sottilissima, li vendemmiamo presto e li lasciamo fermentare a contatto con le sole bucce”, così il vino risulta di carattere, armonioso, con un finale molto elegante.

Il lavoro in cantina

La cantina è in pietra, un lusso nel cuore del borgo, la disposizione su livelli permette il trasferimento delle uve per caduta, dalla diraspatrice alla pressa; in preparazione una nuova zona degustazione, con splendidi affacci. “Siamo piccoli ma aperti al mondo, alle università, ai viaggiatori, ai giornalisti che ci vengono a trovare, e ricordo con soddisfazione le tre settimane in cui ci seguì una troupe giapponese, per documentare la vita di una coppia di viticoltori nel parco delle Cinque Terre, patrimonio mondiale dell’umanità”. La varietà bosco, grappoli grandi, buccia spessa, più adatta all’appassimento, torna protagonista nello Sciacchetrà, “che dà meno soddisfazione all’artigianalità del vignaiolo, perché una volta curate e selezionate le uve, passite nei locali e coi tempi giusti, è un vino che fa da sé”. Dolce ma mai stucchevole, interpretazione eclettica, elegante, “la sfida è semmai nell’equilibrio di polifenoli e tannini, che eredita dalle bucce, in quanto trattato come un rosso”. E nella sua persistenza avverti ancora l’eco del mare, la sapidità che contraddistingue questo passito identitario delle Cinque Terre, “un territorio che proprio nella sciagura dell’alluvione mostrò un lato diverso delle sue genti: sempre litigiose, sempre a becchettarsi, quindici persone dagli altri borghi accorsero ad aiutarci nel ripristinare i muretti, dopo che avevamo perso il 35% dei vigneti”.

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Azienda agricola Possa

L'azienda agricola Possa

Heydi Bonanini deve il nome a un viaggio nel nord Europa dei suoi genitori, quando mamma era in dolce attesa, mentre la sua azienda agricola Possa non fa che scorciare quello della valle in cui nasce, Possaitara, in quel di Riomaggiore. Racconta che aveva appena quaranta giorni quando mise piede qui, su questi dirupi che parevano destinati a sbriciolarsi in mare trascinando con sé secoli di storia. “Nonna aveva chiuso l’azienda agricola, papà e mamma rimpiazzarono le vigne con alberi da frutto” tra i quali loro figlio scorrazzava, per le vacanze o nel tempo libero. “Alla fine degli anni Novanta erano rimaste coltivate poche porzioni di terrazzamenti, le frane avevano devastato tutto il versante”. A Heydi cominciò a piacere l’idea di un vigneto tutto suo, che significasse anche il recupero e la custodia di questo lembo di terra a picco sul mare (un giro a bordo del trenino costruito per la vendemmia a fine anni ’80, restituisce la vertigine di chi lavora in certi contesti).

Si diplomò in Ragioneria ma erano altri gli studi che lo appassionavano, le stagioni e il clima, i vitigni e le tecniche di lavorazione. “Poi l’arrivo in zona di Elio Altare, e il reclutamento che mi portò a lavorare al suo fianco, furono un punto di svolta”. Le prime uve di Heydi vennero vinificate nella cantina che il celebre vignaiolo di Langa aveva avviato a Riomaggiore, e così, in circa tre anni, poté farsi le ossa e l’esperienza per innescare con Possa un percorso in proprio. “Del mio primo Sciacchetrà ne produssi giusti 25 litri, ricordo le reti da letto come graticci per l’appassimento, poggiate sulle pile dei miei libri di scuola che finalmente servivano a qualcosa”.

Sciacchetrà vino passito

Heydi Bonanini con il piccolo Jacopo

Le attività con i bambini

Cresce, affina il mestiere, prende in conduzione nuovi appezzamenti e avvia attività parallele, come quella che compie assieme ai bambini, nell’educazione all’agricoltura rispettosa, o l’allestimento di uno spazio dedicato alla memoria contadina nella cantina di Riomaggiore.

La sua vendemmia è tuttora condotta a mano, le ceste caricate sui trenini a cremagliera o sulla barca. “Le Cinque Terre sono questo, la fatica di lavorare sugli strapiombi, di restaurare i muretti a secco; le cantine, i limoni e il rosmarino, gli odori della campagna, non le botteghe che in paese vendono souvenir tutti uguali”.

I vini prodotti

Tra i bianchi di Possa citiamo Er Giancu, per l’80% da uve albarola, e Parmaea, sentori di tarassaco e ginestra dai vigneti situati sull’isola Palmaria. Per lo Sciacchetrà la cernita delle uve, in prevalenza Bosco, viene fatta acino per acino, l’appassimento è quasi un rituale, la vinificazione rispetta la tradizione ma prova anche nuove strade, come quella dell’anfora. Il risultato è strepitoso, un vino carnoso e intellettuale, eppure terragno, con mille storie da raccontare. “Nel tempo gliene avevano combinate di tutti i colori, allo Sciacchetrà, in nome di un mercato che aveva finito per stravolgerlo; noi recuperiamo il vero senso di questo passito unico al mondo. È un orgoglio la dote di venti bottiglie che storicamente destiniamo a ogni nascituro di zona”, e adesso alle pigiature coi piedi ci pensa il piccolo Jacopo Bonanini, in forze da quando aveva tre anni.

Cantina Cinque Terre e altre voci autentiche

Non si può parlare dello Sciacchetrà e della viticultura autoctona senza ricordare il pregevole lavoro della Cantina della Cooperativa Agricoltura delle Cinque Terre, costruita in località Groppo nella frazione di Manarola, a Riomaggiore, nel 1982, e fulcro del già citato meccanismo del conferimento. Non si tratta soltanto di numeri, di economia, di cooperativismo e di tutela del territorio, laddove sarebbe impossibile, per certi piccoli vignaioli, perseverare nel vortice delle stagioni senza un approdo concreto come questo; si tratta anche di qualità, di continua ricerca nell’innovazione, nella tecnologia, di un’attenzione al prodotto finale che sia accessibile e costante nel tempo.

Per il resto, viaggiare in questo contesto fiabesco, eppure faticoso, fascinoso quanto complesso, talvolta crudele, ha un valore in più se oltre i paesaggi, i paesi, le campagne, il mare, si gioca a scovare la perla di un tenace interprete del vino, e tutti meriterebbero la visita, l’acquisto e il brindisi con uno Sciacchetrà, si pensi a quelli magistralmente prodotti dalla cantina del Vin Bun di Luciano Capellini, a Volastra, o da Forlini Cappellini a Manarola, da aziende più strutturate come Arrigoni, con oltre un secolo di storia, o dalla cantina Campogrande avviata da Elio Altare. Oppure da giovani realtà come Vètua, che Sebastiano Catania conduce con passione e coraggio encomiabili, per vini che sono poesia. È il microcosmo umano e territoriale, il vero terroir che nel bicchiere restituisce una storia, un mondo, un mare che non hanno eguali, non solo enologicamente parlando.

a cura di Emiliano Gucci

Parte di un articolo uscito nel numero di maggio del Gambero Rosso. Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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