Le cucine de Le Gavroche raccontate da chi ci ha lavorato. Intervista a Damiano Ferraro

12 Gen 2021, 13:58 | a cura di
Le Gavroche fa parte della storia della ristorazione internazionale, il ristorante dove sono nati Marco Pierre White, Gordon Ramsay, Pierre Koffmann. Come era quel ristorante mitico? Ce lo racconta Damiano Ferraro.

Le Gavroche, uno dei monumenti alla gastronomia mondiale, ha visto in meno di un anno la scomparsa dei suoi più grandi interpreti, i fratelli Michel e Albert Roux. Aperto dal 1967 al civico 43 della Upper Brook Street, nel quartiere di Mayfair di Londra, ha segnato la gastronomia mondiale e il mondo della critica in maniera sostanziale. Oltre che Michelle e Albert, nelle sue cucine hanno transitato Marco Pierre White, Gordon Ramsay e Pierre Koffmann. Le candidature per un lavoro fioccano settimanalmente e fregiarsi dell’esperienza a Le Gavroche è un passaggio considerevole per il migliorare il proprio curriculum. Tuttavia, per poterlo fare, la regola impone un periodo minimo di un anno.

Michel e Albert Roux

Michel e Albert Roux

Tra gli chef italiani che hanno avuto questa opportunità e che possono raccontare come funziona Le Gavroche c’è Damiano Ferraro del ristorante Capitolo Primo di Montallegro (in via Trieste, 1), un delizioso rifugio di sette camere con ristorante a pochi minuti da una delle spiagge più belle d’Italia. Con Damiano abbiamo ripercorso alcuni passaggi e delle motivazioni che lo hanno portato a Londra.

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Damiano Ferraro. Foto Benedetto Tarantino.

Damiano Ferraro. Foto Benedetto Tarantino.

Damiano, quando hai sentito parlare dei fratelli Roux?

Circa 25 anni fa. Ero in Svizzera da tre anni. Avevo fatto alcune bellissime esperienze, lo Spinne di Grindelwald, un magnifico giocattolo acquistato da Willy Bravand, ex AD della vecchia CIGA Compagnia Italiana Grandi Alberghi, diceva “per tenersi attivo durante la pensione”; l'Olden di Gstaad, un altro “svago alpino” di proprietà di Bernie Ecclestone, ex magnate della F1; e l'Hermitage di Zurigo. In quel periodo, nel 1997, ero al Grand Hotel Park di Gstaad. Un nuovo trasferimento era già nei miei programmi perché mi ero prefissato un percorso formativo che includesse l'Inghilterra. In svizzera l'alta cucina è molto influenzata da quella francese, ma il nome dei fratelli Roux era già leggenda, significava avanguardia e classicità. La critica li aveva sotto i riflettori da tempo.

Come li hai agganciati?

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Mandai un curriculum, accompagnato da una telefonata del mio chef, che - a sua volta - aveva lavorato con Anton Mosimann. Mosimann era uno chef svizzero che aveva lavorato al Hotel Dorchester di Londra, uno splendido cinque stelle lusso, e lì aveva ottenuto due Stelle Michelin. Ma non mi presero perché la cucina era completa. Decisi di andare a Londra lo stesso. Entrai proprio al Dorchester, dove cucinava lo chef Willi Elsener. Al terzo mese di lavoro circolò la voce che Le Gavroche cercava personale immediatamente. Durante un giorno libero andai con mia moglie Adriana e chiesi di incontrare lo chef, specificando che qualcuno aveva preso per me appuntamento, anche se non era del tutto vero.

Quindi ha funzionato!

Mi accomodai nel salottino di attesa e aspettai. Dopo un po' vidi passare Michelle Roux, andava alla reception dell'hotel al cui interno si trova il ristorante. Lo riconobbi subito, lo seguii e mi avvicinai a lui alla reception. Mi presentai e mi candidai.

Il tutto in inglese, immagino

Assolutamente si. In cucina, con il suo secondo e con qualcun altro, parlava francese, ma per il resto e verso tutta la brigata parlava solo in inglese. Mi chiese quali erano le mie precedenti esperienze, poi mi portò in cucina. Nel mentre parlavamo. Io ero abbastanza intimorito per la situazione, più che altro per un fatto sconvolgente: in cucina c'erano 30 persone e regnava il silenzio assoluto. Non si sentiva battere, tagliare, scodellare, niente. Non volava una mosca. Non parlavano nemmeno tra loro. Un affiatamento e un rispetto straordinario. Un'orchestra. Fu molto gentile e capii che sarei entrato.

Immediatamente?

In Inghilterra, in questo settore, il normale preavviso per dimettersi è di una settimana e quello chiesi al Dorchester. Presi a Le Gavroche un menù per capire se c'era qualcosa che sapevo già affrontare. Ovviamente non funziona così ma lo capii dopo. Quello che avevo fatto prima, in quel contesto, non serviva a nulla. Per farla in breve, rassegnai le dimissioni a 7 giorni.

Stesse condizioni economiche?

No. Rinunciai allo stipendio di Junior Sous Chef che avevo al Dorchester, inquadrato e sindacalizzato, di 1670 sterline al mese, esclusi extra. Il nuovo contratto prefigurava il ruolo di primo commis a 607 sterline al mese. L'esperienza che mi accingevo a fare era molto importante per me, ma se si considera che l’affitto era di 135 sterline a settimana e che la travel-card costava poco più di 50 sterline al mese, si comprende bene il dramma. Il nuovo stipendio bastava appena per le spese, non avrei potuto acquistare nemmeno un sandwich. Per farla breve, accettai e Adriana trovò un lavoro, senza il quale non avrei potuto proseguire.

Al Dorchester la presero bene?

Inizialmente non tanto. Una mattina, dopo il meeting che facevamo con lo chef, Willi Elsener, rimasi solo con lui in ufficio. Presentati la lettera di dimissioni scritta di pugno e gli spiegai che volevo fare questa esperienza a Le Gavroche. Lui prese la mia lettera, la stracciò lanciandola sul tavolo, e mi disse che l'hotel voleva investire su di me.

E tu cosa hai fatto, allora?

Io gli risposi che tutti i giovani chef fanno così per imparare, così come aveva fatto lui prima di me, e l'incontro si chiuse. Dopo un paio di ore mi richiamò e mi disse che aveva compreso la mia scelta, soprattutto alla luce dei miei 22 anni, e che Le Gavroche era la migliore opzione, che sarebbe stata importante per il mio futuro. Mi augurò il meglio e mi disse che, se volevo, potevo andare sin da subito. Ma rimasi sino alla settimana successiva.

Com'era il nuovo ambiente?

Splendido, il concetto di eleganza e del lusso sono estremi, dalla qualità delle stoviglie, alla mise-en-place, ai bicchieri, agli ambienti. Alle pareti c'erano quadri di Chagall, Mirò, Picasso. Non era un semplice ristorante, ma un Tempio della ristorazione e della ospitalità. Ma sotto il profilo del lavoro era durissimo.

Che vuoi dire?

I rimproveri fioccavano. Venivamo ripresi per qualsiasi ragione, anche se non era di nostra stretta competenza. Tutti dovevano sapere tutto e dovevano essere parte del successo del locale, nell'ottica della crescita, anche personale. La direzione era quella della ricerca della perfezione. Questo ti plasmava e diventava il tuo modo di essere. Rimasi a Le Gavroche per 15 mesi, da maggio del 1997 a fine agosto del 1998. Si noti che a Le Gavroche chi superava l'anno aveva diritto alla menzione nel curriculum.

Gli orari di lavoro?

Si iniziava alle 5.45 del mattino del lunedì, dopo due giorni di chiusura. Londra nel weekend si svuotava, niente facoltosi, industriali, alta finanza, diplomazia, tutta la gente che orbitava attorno a Le Gavroche. Dopo il servizio del venerdì sera, si ultimava la pulizia generale del fine settimana e i frigoriferi delle cucine venivano sanificati e spenti. Poi, da martedì al venerdì, ci concedevano un’ora di benefit, l’orario iniziava alle 6:45. Il lunedì, quindi, iniziavamo tutto daccapo, partendo dalle basi. Serviva tempo. Lo stile di cucina era d’impronta francese e le preparazioni lunghe.

Che posizione avevi?

Il mio primo incarico riguardava legumi e vegetali. Poi, passai come assistente allo chef poissonier, colui che si occupa del pesce. Venti giorno dopo il mio arrivo, il poissonier andò via e io passai lì. Come è facile immaginare, era una cosa normale, lo stipendio era risicato e il turnover altissimo. Molti non avvisavano nemmeno di aver lasciato il lavoro. Ce ne accorgevamo perché l'armadietto negli spogliatoi era improvvisamente vuoto. Il rituale prevedeva, tornando in cucina, la frase "Another one gone, another one bites the dust", con chiaro riferimento alla canzone dei Queen. A questo punto, per cinque minuti, tutta la brigata iniziava a cantare la canzone. Alla fine della mia esperienza ero chef saucier, mi occupavo delle carni, carni in umido, al salto, ai brasati e salse.

Ma i prezzi a Le Gavroche erano davvero così folli? Il ristorante è nel Guinness dei primati per aver servito il pasto più costoso al mondo, pro capite, circa ventimila euro. I tre ospiti hanno speso oltre 60.000 euro, inclusi sigari, liquori e sei bottiglie di vino, questi extra per un valore 20.000 euro. Era il settembre 1997.

Non esageriamo, il Business-Lunch era alla portata di qualsiasi tasca. Il prezzo, con una mezza bottiglia di vino da 375 cl., costava circa 40 sterline, un tre portate con due portate a scelta, starter, main course e dessert o formaggio; mentre, il dinner con menù degustazione "Exceptionnel" costava circa 90 sterline, escluso tasse, vini e servizi. Si consideri che il “minimum charge” era di 80 sterline, anche si sceglieva un piatto solo. Poi, c'erano delle cose che - se richieste - costavano delle cifre stratosferiche.

Cosa si beveva?

I grandi classici dell'enologia, ovviamente Francia. Ogni tanto rientravano delle cose dalla sala che potevamo assaggiare, ricordo delle grandi bottiglie come Château La Tour, Château Margaux, Romanée Conti e tanti altri. Il sommelier portava quel che restava della bottiglia al pass e versava delle drops, delle gocce in alcuni bicchieri, giusto per dare l'opportunità di provare l’ebbrezza di etichette irripetibili. L'Italia era rappresentata poco, una ventina di referenze su circa duemila. Era pur sempre un locale classico.

Dopo Le Gavroche che successe?

Andai via perché volevo fare un'altra esperienza importante in Italia, più precisamente all'Antica Osteria del Ponte di Ezio Santin. Albert Roux fu molto gentile e si offrì di assumere anche Adriana al Park47 come receptionist, il segmento ospitalità del ristorante. Lei conosceva bene il tedesco per via de periodo in Svizzera, per il ristorante poteva essere una importante risorsa. Ma ormai avevamo deciso e andammo a Cassinetta di Lugagnano.

Le Gavroche ha ricevuto la prima stella Michelin inglese nel 1974, la seconda – sempre per primo – nel 1977 e la terza, ancora una volta per primo, nel 1982. Ma le stelle erano davvero importanti per i due fratelli?

No. A un certo punto persero la terza, avrebbero potuto riprenderla quando volevano. Ma non era l'obiettivo. Le scelte erano disinvolte, alla prima impostazione di stretta ispirazione francese se n'era imposta una di rivisitazione. Inoltre si consideri che i coperti che si facevano erano circa un centinaio, perfettamente gestiti, vero, ma per la Michelin, per un "Tre Stelle", non penso piacesse. Ciononostante è un ristorante che ha fatto scuola nel vero senso del termine. Dalle sue cucine sono usciti grandissimi chef. Potrei ricordare Marco Pierre White, Gordon Ramsay, Marcus Wareing, Pierre Koffmann, Bryn Williams, Michael Smith, Konstantin Filippou e Monica Galetti, quest'ultima una chef neozelandese famosa per essere una dei giudici di Masterchef e proprietaria del ristorante Mere di Londra.

Cosa si impara da un locale come quello dei fratelli Roux?

La cucina francese è indubbiamente una bella scuola. Ma, oggi, la cucina moderna ti permette di seguire meglio il tuo istinto e le tue inclinazioni. Quindi, direi, più di un piatto o una tecnica in particolare, comprendi il funzionamento e la gestione complessiva di un Grande Ristorante, la sua conduzione.

Tra i loro allievi, quale secondo te è stato tra i più brillanti?

Marco Pierre White, senza dubbio. È geniale, è riuscito ad avvicinare la cucina classica francese a quella moderna, senza snaturarla. Le sue Tre Stelle non sono state un caso.

Quel periodo non ti manca un po'?

Si, lo rivivo con nostalgia. Soprattutto ora che i fratelli Roux sono scomparsi entrambi. A fine marzo offrirò un menù di quattro portate celebrativo di Albert Roux, ero più vicino a lui, e di qualche suo allievo. Ho già qualche idea, penso alla Coquille St. Jacques à la Coque al profumo di zenzero, all'insalata di aragosta con mango, avocado, basilico e lime, e al piedino di maiale alla Koffmann. Vedremo.

 

a cura di Francesco Pensovecchio

 

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