La Fondazione Gambero Rosso, creata con lo scopo di dare attenzione e risalto ai temi di ordine sociale e della ricerca, porta avanti questa rubrica dedicata alle donne, non tanto perché in quanto donne ma perché credono nel raggiungimento professionale non tanto perché crediamo nelle quote rosa ma perché è fondamentale parlare e sensibilizzare sulla parità di genere. A questo proposito è importante ascoltare anche voci maschili sulla tematica. Oggi intervistiamo Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe, Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi Confcommercio.
Intervista a Lino Enrico Stoppani
C’è ancora un forte gender gap nelle aziende italiane. Quali proposte o modifiche proporrebbe alle autorità di governo per accelerare il raggiungimento della parità?
Premetto che qui parlo del mondo che rappresento e conosco meglio, ovvero quello dei Pubblici Esercizi: in questo caso il gender gap non è una questione di accessibilità del settore, di acquisizione di competenze, di parità di salario e nemmeno di riconoscimento del ruolo femminile. Le donne sono infatti una componente tradizionalmente sostanziale e insostituibile nei Pubblici Esercizi italiani.
E allpra dove si crea questo divario?
Il grande elemento di disparità è piuttosto quello del welfare - dalle politiche di conciliazione lavoro e famiglia al tema della sicurezza - che sul lavoro delle donne fa la differenza, tanto più in un settore che ha un’organizzazione dei tempi molto più faticosa rispetto ad altri (da noi si lavora quando gli altri riposano e non esiste lo smart-working!). Bisogna sostenere le donne nel conciliare i carichi familiari e personali con l’impegno richiesto nelle attività lavorative.
Nella Sua esperienza lavorativa è mai venuto a conoscenza di episodi discriminatori nei confronti di una donna? Se sì, quali interventi ha adottato?
Esistono certo episodi isolati, ma complessivamente il nostro è un settore inclusivo. Il 51,4% degli occupati nella ristorazione è donna. Le imprese gestite da donne nei PE sono quasi il 30% del totale, oltre 110mila. Quest’ultimo dato è un valore positivo: in Italia la ristorazione è il terzo settore in termini assoluti per presenza di imprese femminili e il quinto per tasso di imprese femminili sul totale. Inoltre, tante imprese (basti pensare a quelle familiari) non sono registrate e considerate come “femminili”, perché le donne non sono socie uniche o la maggioranza assoluta dei soci, ma sono femminili nella partecipazione e nell’imprinting. Forse è su questo punto che esiste una vera discriminazione: bisogna cominciare ad agevolare le imprenditrici, cioè le donne che fanno impresa tout court, e non pensare solo alle “imprese femminili”.
Nel Suo attuale ruolo quali leve gestionali sta utilizzando per facilitare il mondo femminile?
Due anni fa abbiamo creato - grazie alla determinazione di Valentina Picca Bianchi, imprenditrice del banqueting - il Gruppo FIPE in rosa, componente fin da subito integrata dentro la governance associativa. D’altro canto, siamo stati la prima associazione di categoria della complessa galassia di Confcommercio a creare un gruppo femminile, e questo passaggio non è stato certo un gagliardetto da appuntarci sulla casacca associativa. Riteniamo invece importante che la nostra categoria - che di rosa ha così tanto, come abbiamo visto dai numeri e dimostrato nella storia - si impegni formalmente su temi sindacali che promuovano un mercato e una società più equi, che significa anche più competitivi.
In che modo?
Lo scorso anno abbiamo ad esempio lanciato, insieme alla Polizia di Stato, l’iniziativa “Sicurezza Vera”, già promossa in circa 20 città italiane, per porre l’attenzione sul tema delle condizioni di lavoro in sicurezza delle donne occupate nel nostro settore, che presentano i rischi e i pericoli per violenze o aggressioni - fisiche o psicologiche - di cui purtroppo la cronaca nera spesso dà notizia.
Quali modalità e quali formule suggerisce per sensibilizzare e rendere consapevole il mondo maschile di questo gap? Un gap che, peraltro, ha conseguenze anche sul Pil.
Ricordo i dati di Bankitalia: se il tasso di occupazione femminile salisse al 60% dall’attuale 49%, il nostro PIL aumenterebbe di qualcosa come 7 punti in percentuale. Tradotto, 140 miliardi di euro… una enormità, soprattutto per un Paese che cresce a decimali. Io ritengo che non si tratti soltanto di sensibilizzare il mondo maschile sull’ingiustizie e la dannosità delle disuguaglianze di genere, ma di rendere consapevoli le donne stesse di questa strutturale debolezza.
Ovvero?
Si parla infatti molto di empowerment in questi anni, ma ci sono territori e fasce sociali dove le donne non arrivano neanche a soffrire “il tetto di cristallo” perché non alzano neanche lo sguardo per vedere oltre la loro situazione. Il fatto che questo tema sia in cima all’agenda politica e al centro del PNRR e dei progetti di sviluppo non è solo forma, si può tradurre in sostanza se incoraggia un generale cambiamento di mentalità.
Quale messaggio o consiglio si sente di dare alle giovani generazioni in riferimento a questa tematica?
Trovo che proprio le nuove generazioni siano decisamente più mature nel cogliere l’importanza di queste tematiche e, infatti, al giorno d’oggi parità di genere e inclusione generazionale spesso vanno di pari passo. Lo sforzo per rinnovare il Paese passa dalla capacità di inclusione, che considera le differenze una ricchezza, attenua le disparità di partenza, disinnesca i pregiudizi culturali e soprattutto gratifica il merito, che è - e rimane - il migliore criterio guida di una società orientata al progresso. Il merito costa (anche fatica), ma paga: la cucina è una scuola perfetta per trasmettere questo messaggio.
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