Martini Cocktail? Ecco i segreti di due guru

31 Dic 2015, 16:00 | a cura di

È il drink del mito, e come tale porta con sé leggende e ritualità. Per conoscerle a fondo abbiamo chiesto a due guru, o se preferite due sacerdoti che da decenni officiano la cerimonia del Martini Cocktail. Ecco cosa ci hanno risposto Mauro Lotti e Angelo de Valeri.

Nasce in California come “Martinez”, ma una delle molte leggende a esso legate vuole che, dopo le prime coppe ben gelate, la z si perse, così come altri componenti originari, col risultato che oggi del cocktail di 150 anni fa resta poco. La forza del Martini Cocktail va ricercata proprio nella sua capacità di attraversare i secoli sempre come il re indiscusso del bere miscelato.

 

Il mito

Iconico, scelto da una lunga lista di intellettuali e celebrità, associato a uno dei più brillanti design di tutti i tempi, con la coppa che oggi ne è il simbolo, il Martini Cocktail conta innumerevoli varianti: non ne esiste una versione definitiva. Perché il Martini cambia, si evolve, si reinventa sempre nuovo, ma sempre fedele al proprio carattere. Si sa solo che sarà sempre comunque freddo. E poi? Poi ci sono mille variabili. La più comune è quanto secco? Su questo (anche su questo) si inseguono molte storie, come quella che racconta come Churchill, al momento del vermouth, facesse un inchino in direzione della Francia, o l'altra, secondo la quale c'è chi lo prepara limitandosi a pronunciare la parola “vermouth” sul ghiaccio, a intendere che la dose giusta di liquore sia quella solo evocata a voce. Che sta a significare la variante più secca del cockatil.

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Cocktail d'autore

Ma se vogliamo saperne di più, bisogna chiedere a due tra i massimi esperti di Martini Cocktail. 60 anni di carriera negli hotel di lusso, dal Beau Rivage di Losanna negli anni ’60 al Grand Hotel di Roma, Mauro Lotti è dal 2000 Ambassador e consulente Martini. Dal 1989 ad oggi all’Excelsior di Via Veneto, Angelo de Valeri serve a due mani e per questo è noto come il sacerdote del Martini Cocktail. Abbiamo ascoltato le loro voci per seguire le tracce del cocktail del mito.

 

Dove vanno ricercate le ragioni che fanno del Martini da sempre il re dei cocktail?

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ML. C'è chi lo vuole con un Gin specifico, chi con l'oliva, chi senza, chi con la scorza... non è lì che va ricercata la forza di questo cocktail; il Martini non è una "roba da bere", è rito, è mito, è leggenda che diventa storia. E sarà sempre così.

 

L’esperienza vi consente di prevedere se un cliente chiederà un Martini?

ADV. Noi ci accorgiamo subito chi è arrivato, ce ne accorgiamo da come ci guarda, perché chi sa bere cerca immediatamente lo sguardo del bartender, per capire se è all'altezza. E noi facciamo altrettanto. È un gioco di occhiate di pochi secondi nei quali ci si soppesa. E se il cliente ti chiede un Martini Cocktail tu sai di aver dato una buona prima impressione, se lo ha apprezzato si aprono le porte e si scrivono pagine di umanità: storie di Martini Cocktail. Succede solo col Martini; col Cosmpolitan, col Manhattan non c'è la stessa magia.

ML. Con ogni cliente il momento più importante in assoluto è l'apertura, il primo cocktail. È il "momento viola", quando gli adulti iniziano la ricreazione, il momento delle belle signore e degli sguardi seducenti. Se è un Martini è ancora più importante. Entri nel bar sapendo che c'è un professionista che si occuperà del tuo benessere. Il cocktail fa il resto, fa la magia, e le barriere cadono. Puoi parlare per un'ora, ascoltare e raccontare confidenze riservatissime senza sapere mai il nome della persona che hai accanto. Un bartender sa sempre più cose di quelle che dovrebbe. Questa è la magia del bar, il posto della ricreazione degli adulti. Soprattutto per i martiniani.

I martiniani?

ML. (sorride) Si, guardi, è come ha detto Angelo: negli ultimi dieci passi capisci se è arrivato un martiniano. E non creda sia una stravaganza. Il martiniano arriva in modo discreto, quasi invisibile; è vestito con abiti comodi e ama i colori della natura. Ma prima di tutto il martiniano entra guardandoti negli occhi e non chiede distrattamente. Saluta offrendo e richiedendo attenzione, e il suo "buonasera" non è buttato li. Certo, si può anche bere Martini Cocktail ma non essere martiniani. Ora, se lei scriverà queste cose deve considerare che potremmo essere presi per pazzi; ma le assicuro: i martiniani esistono. Umberto Eco è un martiniano; lui lo beve on the rocks, come molti intellettuali. È un modo per bere tutta la sera. Il ghiaccio si scioglie lentamente e la conversazione resta lucida.

ADV. In quel caso si prepara tutto nel bicchiere: prima sempre le gocce di vermouth sul ghiaccio e poi il gin. Ma solo una piccola giratina perché è il cliente che mescolerà, secondo i suoi tempi.

 

Il Martini Cocktail ha uno stretto rapporto col lusso. È vero?

ML. Assolutamente. Quello del lusso è un mercato d'elite che presuppone il massimo, e il Martini è il massimo. Ha a che fare con persone che non solo hanno tanti soldi ma anche competenze. Sono clienti che sanno, vogliono e pagano; punto. Per far questo serve personale formato ai massimi livelli perché il lusso richiede grande competenze, sia dalla parte del cliente sia da chi offre il servizio. Il Martini Cocktail è un prodotto di lusso. Non è per tutti, ma per chi vuole fare un salto di qualità: si arriva al Martini Cocktail quando lo si scopre, magari nella grande letteratura, nella storia del cinema, o quando lo si ritrova nei musei. Allora ci si chiede perché e si scopre che è un passaporto, che ti accredita in tutti i bar del mondo.

 

Parliamo di preparazione e specifichiamo una volta per tutte: "agitato non mescolato"?

ML. Tutto il contrario. Io ho iniziato a fare Martini Cocktail all'inizio degli anni '60 e ho avuto il privilegio di incontrare William Somerset Maugham a Losanna, ero al Beau Rivage. Mi confermò quanto aveva scritto e cioè che il Martini va sempre mescolato, mai agitato, perché le molecole del gin e del vermouth si devono adagiare sensualmente le une sulle altre. Il Martini shakerato viene sempre più freddo e diluito, e poi quella sovra ossigenazione lo opacizza leggermente e gli conferisce una sorta di vivacità che altrimenti non avrebbe. E poi c’è anche il Martini "riposato": in quel caso si versano i componenti e ci si ferma a guardare, senza toccare, per dieci secondi, per poi versarlo in coppa. Ne risulterà un gusto "a ondate", perché le molecole non sono mischiate e arrivano a onde e alla vista mostra riflessi adamantini. In bocca il "riposato" risulterà più denso e morbido degli altri Martini.

ADV. Il Martini Cocktail è la prova del nove del barman. Non è tanto importante la ricetta, il tipo di Gin, l'oliva o la scorza: ciò che fa il Martini Cocktail è il modo di farlo, la preparazione, il rito. Il martiniano vedi che cerca una sorta di complicità perché è parte del rito. Complicità che è diversa dall'amicizia.

ML. Si guardi, in questo mestiere non ci sono amici, ci sono solo clienti. Semmai, ai più meritevoli io offrivo un Martini Cocktail in coppa di cristallo, l'asso nella manica. Nel nostro mestiere la messa in scena è fondamentale; tu apri la cassaforte, prendi una coppa di cristallo francese e vi assicuro che il Martini Cocktail è un'altra cosa. Appoggiare le labbra su un Baccarat fa una grande differenza, dal bordo molato che asseconda il "bacio" alla sensualità insita in quel materiale. È lo stesso con il vino. Il cristallo è come la pelle di una giovane donna, vellutata, magica.

 

Sono sempre gli Stati Uniti a dettare le tendenze del bere miscelato?

ML. Si, è sempre stato così, perché l'America è un posto di grandi bevitori. Il Martini Cocktail "è il più grande regalo degli Stati Uniti alla cultura del mondo". Lo scrisse un suo collega americano negli anni ‘50. E aveva ragione. È negli States che un barman dovrebbe aggiornarsi annualmente.

ADV. Ricordo i primi anni ‘80 quando Lotti portò in Italia le Tomolives, i piccoli pomodori verdi in salamoia che sembrano olive. Sorprendeva e consentiva un'ulteriore ricercatezza, rendendo il suo Martini unico.

ML. Ma sì, sono sempre stati gli States a dettare la linea nel bere, addirittura anche negli anni '80 quando esplose la moda dell'acqua minerale, della Perrier come aperitivo. Erano gli anni di Jane Fonda e dell'aerobica. E poi ancora ai primi '90 quando gli americani decisero che non si vive di sola di acqua e inventarono i Martini's Bar.

 

Un locale per tutti in questo momento?

ML. Il Pegu Club, a New York.

 

Perché il Martini Cocktail fatto a casa viene… diverso?

ADV. C'è un cliente affezionato che viene tutte le domeniche per il suo Martini Cocktail, è un rito. Classico martiniano si siede sempre allo stesso divanetto. Un giorno mi ha confessato quello che dice lei: ha detto di averci provato mille volte a casa ma mai gli era riuscito di fare un Martini come si deve. Disse di aver studiato anche i miei tempi di preparazione e usato gli stessi ingredienti, ma niente. Gli risposi quello che oggi dico a lei, ovvero che “la messa di dice in chiesa”.

ML. Assolutamente. Ha fatto caso che Angelo, completata la preparazione offre la coppa Martini con due mani? È un rito, con gestualità che ricordano quelle del sacerdote.

 

Amare il Martini Cocktail non vuol dire necessariamente amare il vermouth...

ML. Sulla quantità di vermouth i martiniani possono sfidarsi all'ultimo sangue pur di affermare che la propria visione è quella definitiva, la più importante. A questo punto lei capisce che la forza del Martini Cocktail sta esattamente qui: nessuno avrà mai l'ultima parola e questo garantisce al Martini la vita eterna.

 

a cura di Dario Pettinelli

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