New Generation Chef. Domenico Cilenti

8 Nov 2011, 17:58 | a cura di

Ai fornelli con lo spirito del Gargano

 

 

 

Le orecchiette fatte in casa con pomodoro fresco e cacioricotta. Le tagliatelle al nero di seppia con calamaretti spillo e fav

e tenere primaverili. La memoria materna. La scommessa del presente. Domenico Cilenti era il ragazzino delle scorribande per il centro storico di Peschici, e gridava spensierato “port’ u vasc” insieme ai suoi compagni di avventure. Inquieto sognatore come tutti gli adolescenti, amava trascorrere il suo tempo con in braccio una chitarra a comporre canzoni come la Ballata dei desideri: «Io sono l’acqua che riempie il tuo mare / io sono l’onda che arriva alla riva / sono il delfino che salta e sa amare / sono la notte che dopo il giorno arriva».
Era il 1998. Nove anni dopo il suo desiderio ha assunto la forma di un ristorante sul mare dalla posizione incredibile, Porta di Basso, appunto, ché le sue origini, la sua infanzia trascorsa nell’orto del nonno contadino e accanto alla mamma cuoca, Domenico non le scorda mai. «Sono contento che nella vita ci voglia tempo per arrivare. Io ci ho messo un po’ e quando mi classificano come giovane ed emergente quasi quasi mi stupisco». Tutto comincia in quel fazzoletto di Puglia incontaminato che si chiama Gargano. La sua gavetta si compie nella trattoria di famiglia, con la madre che impasta orecchiette, pizze con le patate e troccoli con i fagioli «cotti a fuoco lento nella pignata, con l’amido della pasta che si scioglieva dolcemente nella crema dei legumi, il profumo dei pomodori fatti in conserva per l’inverno, indimenticabili».

 

 

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Lui dà una mano in sala e impara in fretta cosa vuol dire cucina espressa: «Ogni singolo piatto era fatto al momento. Dieci commensali? Dieci porzioni di orecchiette, cavate, cotte e condite qualche istante prima di arrivare in tavola». Gli studi da geometra e le estati nei pub inglesi, prima di capire che il suo futuro era in un ristorante. Ma non ancora in una cucina. «Quando ho preso in gestione una balera mi occupavo ancora della sala e pagavo uno chef. Ma costava troppo. Allora ho capito che era arrivato il mio momento». Il suo “shock termico” avviene in Svizzera, al Principe Leopoldo di Lugano, dove passa tre anni in veste di stagista. È lo scatto decisivo, il salto mentale e culturale dal trampolino. Il passato si fa bagaglio cui attingere per inventare qualcosa di diverso, e originale. Ma i peschiciani, e i turisti, amano i troccoli con gli scampi e le fritture di calamari, stop. E lo scontro con la pigrizia gastronomica è inevitabile, ma aggiunge il sapore della sfida al suo progetto.

 

 

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«All’inzio è stata dura, mi davano del pazzo perché mi rifiutavo di mettere in carta il pesce congelato e le patatine fritte. Ma ora godo quando i tedeschi chiedono, e apprezzano, le tagliatelle al nero di seppia. È una specie di vittoria anche quella».
Insieme ad Annalisa, compagna di vita e di lavoro, ristrutturano completamente un vecchio fabbricato in pietra, una volta adibito alla molitura delle olive, a picco sull’acqua, arrampicato sulla scogliera a 90 metri di altezza. Lo pensano, e realizzano, sobrio e chiaro per non rubare la scena al mare. Con delle vetrate enormi perché fino al tramonto la luce naturale (e che luce!) sia sufficiente a illuminare la sala. E vogliono raccontare il repertorio classico con una grammatica nuova, perché anche gli abitudinari di ferro locali – ma ormai qui arrivano da ogni angolo della Penisola – si lascino prendere per mano alla scoperta di cosa possa accadere giocando con una terra e un mare così generosi. «Vado a fare la spesa ogni giorno, e la sera creo a seconda di quello che ho trovato. Poi si assaggia insieme agli altri per vedere com’è: Annalisa in particolare è la mia critica più severa». Può accadere che una pancia di ricciola marinata e salata con erbe del Gargano diventi un prosciutto di mare arricchito da asparagi selvatici appena sbollentati. O che la grassezza iodata di uno sgombro trattato con aromi della zona si sposi magnificamente con il soffice di mortadella (una sorta di mousse) e il grano al vapore («il nostro caviale»). Abbinamenti inconsueti e sapori carnali e prorompenti: mano, occhi, naso al servizio della materia prima di queste terre per certi aspetti ancora selvagge, e pure. «Qualsiasi paesaggio o colore possono diventare uno stimolo. Un campo di papaveri, il verde smeraldo delle onde, il profumo dello iodio. E le mani callose di un contadino o di una massaia, il lavoro fisico, la natura. Il mio spirito è nella vita della terra».
Ormai molti vengono e dicono “fai tu”. E gli danno il la, perché questo ex ragazzo con la chitarra si esprime al massimo con la nota giusta, con l’ospite che si siede comodo e si lascia andare alle sue melodie. «Se potessi mi dedicherei in tutto e per tutto ai miei ospiti. Mi piacerebbe portarli con me al mercato e a scoprire le spiagge più nascoste, vorrei raccontar loro il territorio tout court, così come lo conosco io». Per il momento si limita a comporre tavolozze di tortelli con manzo podolico e riduzioni di basilico e pomodoro, a svezzare i palati assonnati con la zuppa di cicorietta selvatica e scampetti.  Senza dimenticare il gusto della sua bambina di due anni, che cresce al sapore dei cavatelli con rana pescatrice e finocchietto selvatico... Non li troverete nel menu di Porta di Basso, perché sono un piatto dedicato.  Se vi accomodate alla sua tavola, accontentatevi di ciò che Domenico, o meglio la natura del Gargano attraverso di lui, vi proporrà quel giorno. E non disturbate troppo i gabbiani che vi scruteranno, selvatici e incuriositi, planando a qualche centimetro da voi. Alla fin fine quella è pur sempre casa loro.

 

 

Valentina Marino

giugno 2011

 

 

per le foto dei piatti si ringrazia

www.lucianopignataro.it

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