Conversazione di Gusto. Raffaella Curiel

23 Dic 2010, 11:46 | a cura di

La classe? È (anche) acqua


«No, basta, voglio solo stare comoda, voglio un abito largo, terrò questo». Mi presento all’appuntamento con Raffaella Curiel nel suo atelier di corso Matteotti a Milano. Lei è “la” signora  dell’haute couture itali

ana, alta sartoria, charme, raffinatezza, l’Italia da spendere al meglio. Siamo qui per parlare del suo primo libro di ricette che non a caso si intitola “Lo stile in cucina” e che ha deciso di scrivere, «incalzata dal nipote», per raccogliere ricette e storie di famiglia.

Circondata dai collaboratori e da bobine di magnifiche stoffe, sta provando, davanti a uno specchio, un abito da indossare alla Prima della Scala. È un abito di velluto blu petrolio che sulla sua chioma fulva alla Hayworth, gli occhi verdi e il fisico ancora lanciatissimo, le sta una meraviglia. Non è però soddisfatta, Raffaella, c’è quel filo di pancetta di troppo. Ma come, proprio lei che ha appoggiato l’iniziativa del comune di Milano Food is fashion and healt, non avrà per caso in mente quel modello anoressico che tanto ha combattuto anche tra le sue indossatrici?.

«Sa – fa Lella – gli stilisti con questo tipo di modelle ci vanno a nozze. È più facile disegnare un abito su una signorina senza forme. Però io alla mia  età ci devo stare un po’ attenta. Infatti non mangio. Cucino per gli altri e assaggio». Scherza naturalmente con ironia spiccia e quel vezzo meneghino finto snob così carico di  calore e umanità.

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E comunque nel libro c’è la ricetta togli-pancia: a base di finocchi e cipolla bianca. Ha coltivato – e lo si capisce dal tratto volutamente infantile dei disegni che corredano le ricette – uno spazio inviolabile di ingenuità e piccoli capricci: «Sono felice quando faccio ciò che mi piace, disegnare come una bambina. In fondo non sono mai cresciuta».

Cresciuta invece lo è, eccome. Se non altro perché ha cominciato a lavorare a 16 anni, dopo il cancro della madre, e ancora lo fa: «Io, tesoro, lavoro 14-15 ore al giorno. Sono stata educata per fare la piccola borghese casalinga, poi la vita ha rivoltato tutto quando sono rimasta vedova. E il mio angolo del cuore, la mia riserva privata è sempre stata la cucina. Mi metto là, non fumo, mi rilasso, ascolto musica e preparo per le persone a cui voglio bene».

È stata la madre Gigliola – prima stilista italiana  ad avere un’esclusiva con Bergdorf Goodman, grande e lussuosissimo store di New York – a trasmetterle  il culto  dell’amicizia e quel particolare modo di ricevere abbastanza anomalo negli anni Sessanta quando in certi ambienti impazzavano party e cocktail. «Ma lei non metteva mai a tavola più di otto persone».

A casa Curiel è sfilata negli anni tutta l’aristocrazia e la borghesia italiana e l’intellighenzia internazionale, da Isaac Stern ad Arthur Rubinstein, da Benedetti Michelangeli a Montanelli e a Montale, da Remarque a Paulette Goddard, da Toscanini a Soros, da Moratti ad Angelo Rizzoli...: «Ah, quel pollo alla Reine che la mamma faceva quando veniva Rubinstein... Lei lo aveva italianizzato, farcendolo con cipolle  bianche. Ecco la ricetta».

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Sfoglia il suo libro amabilmente soddisfatta riflettendo tra sé tra una sigaretta e l’altra: «Come la Clerici e la Scicolone, ma chi me l’ha fatto fare?». Chiedo in che cosa si condensasse  quello stile (della madre!, of course...) tanto ammirato. «Intanto non c’era mai una macchiolina d’olio sul piatto, mai un occhiolino di grasso. Mia madre aveva orrore dei grassi. Anch’io cucino leggero».

Ma che idea si è fatta Lella dello stile nel cucinare e nel ricevere dell’high society dei giorni nostri? «Trovo che oggi ci sia una ricerca spasmodica, esasperata, un assemblaggio di sapori che alla fine tolgono sapore al sapore. Nelle case come al ristorante. Mancano proprio i veri sapori. Ma per quelli ci vuole tempo, tanto tempo; e neppure i cuochi ne hanno più. Io poi vado pochissimo al ristorante, pochissimo. Mi piace Giacomo, mi piace la Bice, Vittorio a Brusaporto è di una bravura straordinaria, Berton fantastico. A Roma Nino non mi tradisce mai, adoro il suo sformato di spinaci. Ma io preferisco cucinare. Per lavoro mi tocca anche frequentare certi ricevimenti dove si mangia da bestia, ma io mi sfamo prima a casa».

Conserva tuttavia in una cartella i menu dei  ristoranti, poi li interpreta a modo suo: sono una fonte di ispirazione, insieme al mercato: «Ci vado ogni mattina. “Ciao Curiel”, mi dicono. Mi conoscono tutti. Ma che divertente, i colori, la gente. Lì mi vengono anche le idee per la moda. Ci sono tutte le etnie possibili e ti viene la curiosità di chiedere».

Anch’io sono curiosa: come stanno insieme moda e cibo, come si crea la giusta atmosfera? «Ogni volta faccio una tavola diversa» e per insistere sul concetto usa l’espressione “tutta la vita”: «Tutta la vita tavole diverse, oggetti che pendono dal lampadario, oggetti sulla tavola, brocche per l’acqua e bicchieri per il vino, di recente dal Marocco ho portato dei meravigliosi oggetti di filigrana d’argento. Per Natale tovaglia bianca e pizzi d’oro».

La convince la ricerca estetica portata avanti da tanti cuochi? «Un ristorante non può creare ogni volta un’apparecchiatura diversa come a casa. È logico dunque che si concentrino sul cibo, il colore che non mettono nella tovaglia o nel centro tavola è giocoforza che lo riversino nel piatto. In casa hai altri strumenti per esprimerti. Di contro, è giusto che certe cose in casa non le fai, non puoi mettere in imbarazzo l’ospite. Non puoi arrivare con dei piatti che rispondono solo al tuo ego. Non puoi dire: eccomi qui, ecco il genio. Allora vai a fare il cuoco. “Tutta la vita” piatti conviviali. A meno che non siano brodi zuppe vellutate che puoi servire nelle singole fondine. Ma se appena appena c’è dentro riso o pasta, allora no. Meglio una bella zuppiera». Tutta la vita, tutta la vita.

 

IL LIBRO

Lo Stile in Cucina
Le ricette di Lella Curiel e altre storie
Ed Codice Atlantico
pag. 192
Euro 35,00

di Raffaella Prandi
gennaio 2011

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