Non è una moda. E se anche lo fosse, viva le mode! Sì, perché la biodiversità è una salvezza per l’umanità. Se le specie coltivate si riducono da migliaia a poche decine, infatti, si restringono le risorse per superare eventuali crisi ambientali o fitosanitarie. E c’è da dire che dopo l’esperienza della pandemia, dovremmo stare molto attenti a non azzerare le nostre risorse. Ne è esempio la morte delle viti per la fillossera a fine ‘800. Oggi la consapevolezza è più forte e si moltiplicano storie e pratiche di agricoltori che sulla biodiversità puntano le loro strategie produttive e di marketing.
La biodiversità è il risultato dell’impegno dell’uomo al cospetto delle risorse che offre la natura
Frutti tramandati da millenni che acquistano quasi contorni mitologici, grani antichi che antichi non sono, una retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” che rischia di appannare la sostanza dei fatti. Cioè che la biodiversità non è una favoletta raccontata al mercato per vendere meglio il proprio prodotto. Ed è invece il risultato dell’impegno, ripetuto e tramandato nel tempo, dell’uomo al cospetto delle sconfinate risorse che gli offre la natura, da sempre. Senza il suo lavoro di rispettoso addomesticamento, però, la biodiversità muore. E coltivare la biodiversità, oltre a preservare l’ecosistema di un territorio, significa generare ricchezza: culturale, occupazionale, economica.
I numeri dell’impoverimento
Ma di cosa parliamo, esattamente, quando ci ergiamo a baluardo della biodiversità agricola? Perché è tanto importante lavorare per preservarla, ma è anche così facile incappare in slogan stereotipati e abusare con un certo romanticismo nostalgico di riferimenti ad antiche varietà, contadini custodi, tradizioni millenarie e prodotti tipici che alludono con una certa vacuità alle cose buone di una volta? Di numeri per supportare la causa di un sistema agricolo alternativo all’impostazione convenzionale, di fatto più aderente al rapporto ancestrale dell’uomo con la terra, se ne possono mettere in fila molti: ancora un secolo fa, per esempio, in Italia, si coltivavano 8.000 tipi di frutta, oggi sono poco meno di 2.000, e di questi 1.500 sono considerati a rischio estinzione. Lo stesso processo ha toccato i cereali, le razze animali da allevamento, le orticole. E a livello globale solo 150 specie vegetali – delle 30mila commestibili conosciute – sono attualmente coltivate in modo intensivo: 12 di queste forniscono circa il 75% della nostra alimentazione.
Dunque, è indubbio, da decenni è in corso un progressivo e pericoloso impoverimento della biodiversità agricola, determinato principalmente da ragioni commerciali che riguardano in primis il monopolio sulla circolazione dei semi: un mercato che vale miliardi di dollari ed è oggi per oltre il 50% nelle mani di grandi multinazionali, che contemporaneamente controllano anche il mercato dei pesticidi. “Eppure i semi sono il motivo per cui c’è vita sulla Terra, l’origine di tutto. Per dirla con l’equazione sostenuta dal professor Salvatore Ceccarelli, se dal cibo dipende la nostra salute e la produzione di cibo dipende dai semi, allora buona parte della nostra vita dipende dai semi. Per questo l’unica chiave della sicurezza alimentare è la biodiversità”. A parlare è Stefano Scavino, poco più che trentenne, formazione da architetto e oggi agricoltore, impegnato con l’azienda Dui Puivrun a rigenerare l’ecosistema orticolo di un territorio un tempo molto vocato per la coltivazione di ortaggi e frutta, che fa capo a Costigliole d’Asti.
Le varietà agricole e la memoria degli ecotipi
La sua ricerca sugli ecotipi locali è iniziata nel 2015, e oggi comincia a raccogliere le prime soddisfazioni (anche in termini commerciali). Con lui ci muoviamo alla scoperta del significato delle varietà locali, che va ben oltre la macchietta dei frutti antichi da piazzare a caro prezzo in un mercato di nicchia: “Le varietà locali sono tali perché quelle sementi sono state riprodotte per secoli in un determinato ambiente, grazie alla capacità selettiva dei contadini del luogo, attraverso tecniche e competenze che abbiamo finito per perdere”. E infatti quando parliamo di varietà agricole stiamo già chiamando in ballo un’attività dell’uomo, “che le ha coltivate, mantenute e tramandate, operando un percorso di selezione e addomesticamento, calato in un luogo e in un tempo determinato. Per questo le varietà sono espressioni di cultura, non solo di natura”, spiega in modo efficace Massimo Angelini in uno dei testi essenziali per chi voglia approfondire il tema (Minima Ruralia, 2013). Ma le varietà cosiddette tradizionali, cosa sono? Quelle coltivate con continuità in un luogo preciso e in quel luogo conosciute con almeno un nome proprio, tramandate da una generazione all’altra.
Spesso se n’è persa memoria, ma ciò non significa che non esistano più: “In Sicilia si contano 170 varietà di pere censite, al mercato ne trovi 2 o 3. Ma nella zona iblea, un tempo molto battuta dai commercianti con i loro carretti, lungo le antiche vie di passaggio si trovano ancora piante selvatiche di pere, di cui non si è tramandato il nome: le seminavano i viandanti per avere sempre frutta a disposizione durante il viaggio”. Gian Luca Pannocchietti, al lavoro da anni per recuperare circa 700 varietà locali che coltiva in consociazione su quattro ettari di terreno a Rosolini, ha fondato Radice Sicula anche per rimediare a questa perdita di memoria. Una trentina di varietà le commercia in cassetta o le fornisce alla ristorazione più attenta.
“I semi sono la memoria della famiglia, custoditi nell’intimità”
“Quando ho iniziato il mio percorso di ricerca di varietà orticole tipiche del territorio alpino valdostano sembrava tutto svanito nel nulla”, racconta Federico Chierico. Laureato in Scienze e Culture delle Alpi, da qualche anno ha fondato con il socio Federico Rial l’azienda agricola Paysage a Manger, nella valle del Lys, a Gressoney Saint Jean. Presto l’attività si è concentrata sulla produzione di patate “antiche” di montagna, 60 – di cui una quarantina commercializzate, tra cui la locale patata di Verrayes e una decina legate alla comunità Walser, cui si affianca un lavoro sulle orticole dimenticate, ugualmente ritrovate in loco – selezionate con l’aiuto della fondazione svizzera ProSpecieRara e una paziente ricerca sul territorio: “È difficile riallacciare i fili con ciò che è uscito dalla memoria. Negli anni Trenta sulle Alpi Occidentali la politica agraria ha spinto l’allevamento da latte, disintegrando la policoltura. Eppure sottotraccia la cultura contadina ha preservato i suoi semi: un tempo la donna li portava in dote insieme al corredo. E tra gli anziani che oggi li conservano ancora vige una sorta di gelosia. I semi sono la memoria della famiglia, custoditi nell’intimità".
"Il problema è che insieme alla memoria dei semi si è persa anche la capacità empirica di riprodurli. Noi abbiamo attinto a un trattato sulla coltivazione delle patate di fine Ottocento, e al bel lavoro fatto dal Consorzio della patata Quarantina, in Liguria, negli ultimi anni: abbiamo la fortuna di coltivare in quota, dove la dorifora, parassita delle patate, non attacca. Ma il tema ci riguarda tutti: parlare di tutela della biodiversità agricola significa restituirla ai contadini, a partire dalla libera riproduzione dei semi. E, soprattutto, significa tornare a mangiarla, non limitarsi a musealizzarla all’interno delle banche del germoplasma. Consapevoli del fatto che le varietà locali possono rivelarsi anche una grande risorsa economica per i territori marginali, perché rappresentano la specificità di un luogo, l’identità di una comunità e un’opportunità commerciale per le piccole aziende di presidiare settori non coperti dall’agricoltura industrializzata”.
La biodiversità è la ricchezza dei contadini. E fa bene al territorio.
“Non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato, conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini”, direbbe (e dice) il solito Massimo Angelini. La pensano così anche Angelo Giordano ed Ellis Vighi, che insieme, a Ceglie Messapica, hanno da poco costituito il circuito R-Etika, mettendo insieme diverse realtà agricole del Salento, con l’obiettivo di promuovere la biodiversità agricola pugliese. Il primo, agronomo fuoriuscito dal mondo accademico in cui non si riconosceva più, ha iniziato ormai otto anni fa con Valerio Tanzarella un lavoro sulla replicazione di semi di orticole tagliate fuori dall’agricoltura convenzionale.
“Siamo partiti da una domanda semplice: perché il mercato non offre decine di varietà di ortaggi che invece sono rintracciabili sui nostri territori? La risposta falsa è che non sono produttive o redditizie. Ci siamo abituati alla distorsione indotta dal sistema degli ibridi commerciali: le grandi ditte sementiere ti vendono il seme e insieme la chimica che serve per avere un risultato utile in campo. Mentre una varietà locale saprà più facilmente adattarsi al territorio. Spenderò nulla in chimica, riducendo anche l’inquinamento e lo sfruttamento dell’acqua: gli ibridi funzionano con azoto, fosforo e potassio, dunque sale; per questo hanno più bisogno di acqua, tra le 150 e le 250 volte in più di una varietà locale. E sono più soggetti ad ammalarsi. Dunque recuperare gli ecotipi locali conviene, a chi produce e a chi consuma”.
Grazie alla rete, le cultivar seminate e selezionate in campo sperimentale da Angelo vengono distribuite ai contadini associati che le produrranno senza utilizzo di chimica, e in modo sostenibile, per poi proporle al mercato a un prezzo (equo) minimo garantito dall’associazione. Il lavoro di selezione in campo si protrae per oltre un anno, dopo un avvio che ne ha richiesti tre per ottenere i semi sufficienti: “Abbiamo recuperato 1.500 varietà di pomodori, attualmente ne abbiamo in prova oltre 200, ne distribuiamo una ventina; poi abbiamo 10 varietà di melanzane, 9 zucchine, una quindicina di peperoni, una ventina di cicerchie e circa 40 tipologie di fagioli. Alcune sono varietà non autoctone, perché crediamo che la diversità sia sempre una risorsa e in natura l’ibridazione è sempre esistita. Se ben si adattano al nostro territorio, con uno sfruttamento minimo di risorse tra qualche decina d’anni diventeranno tradizionali a propria volta”.
Il mercato delle varietà locali. Ristorazione e opportunità all’estero.
R-Etika si propone di connettere questo mondo produttivo etico con chi può sostenerlo economicamente, per esempio la ristorazione. Ed Ellis, che è chef con i piedi ben piantati nella terra, è l’anello di congiunzione tra il mondo contadino e i potenziali acquirenti: "Spesso gli operatori del settore ignorano l’esistenza di queste risorse. Credono di poter scegliere, ma non è così. E dobbiamo far capire loro che coltivare cibo è una questione di attese". Qualche difficoltà a dialogare con gli addetti ai lavori l’ha riscontrata in questi anni pure Stefano Scavino: "Io sono partito subito con l’idea di recuperare ecotipi pressoché estinti, per motivi culturali, ambientali e commerciali: le varietà ibride sono ‘costruite’ per andar bene dappertutto, ma poi non sono adatte a resistere senza fertilizzanti e pesticidi; e c’è da fare anche un discorso di radicamento nella storia della gastronomia locale, prodotti come il cardo gobbo, il peperone quadrato d’Asti, il Tumaticot o il carciofo del Sorì hanno una storia e caratteristiche organolettiche che mi garantivano di fare un lavoro coerente con le mie idee". Il percorso di recupero delle sementi, laddove il filo si è spezzato, non è semplice: "È necessario saper sbagliare. Io ho avuto il supporto dell’Università di Torino, del Cnr e dell’ente di ricerca privato Agrion, con cui abbiamo approntato un campo sperimentale per il miglioramento genetico; ma le variabili in campo sono molteplici, a partire dalla difficoltà di garantire la sanità dei semi e lo stato fitosanitario della pianta, che nell’orto si riproduce sempre in modo diverso".
Per il peperone quadrato d’Asti, per esempio, Stefano è partito da semi forniti dalla banca del germoplasma di Grugliasco, "praticamente dei fossili, del 1981! I primi due anni sono stati tragici, la genetica era tarata sulle condizioni di quarant’anni prima. Ma la pazienza ha pagato, e ora sto cercando di coinvolgere altri produttori locali per riavviarne la produzione e posizionarci meglio sul mercato. Fare rete sul territorio è l’unico modo per sfruttare le potenzialità economiche di queste varietà". Perché un mercato, per le varietà locali, esiste: "Alcune di queste operazioni sono fatte per avere un prodotto finale più alto. L’ortofrutta è piuttosto maltrattato, un prodotto particolare può strappare un prezzo migliore o conquistare un mercato preciso. Ma il discorso funziona meglio all’estero, e infatti le varietà locali possono essere una grande risorsa per il made in Italy, a patto di garantire una capacità produttiva stabile: ho recuperato da un contadino locale il pomodoro Cerrato d’Asti, da due anni lo vendo tutto a un acquirente straniero, attratto dalla sua unicità. In Italia, invece, in mancanza di un bollino si fa sempre fatica a ottenere fiducia e credito, anche con i ristoratori. E infatti sono soddisfatto dell’ultimo traguardo appena raggiunto: dopo averlo recuperato, il carciofo tardivo di Valtiglione (anche detto del Sorì, dal termine piemontese che indica i versanti collinari esposti al sole, ndr) è stato riconosciuto Presidio Slow Food. E le richieste sono subito aumentate".
Un caso di scuola. Il progetto BioDiverso
Chi crede molto nel valore commerciale della biodiversità agricola - e anzi sostiene l’imprescindibilità di ottenere un riscontro economico da questo lavoro perché possa davvero essere motivo di rigenerazione sociale e occupazionale, culturale e ambientale – è il professor Pietro Santamaria, docente dell’Università di Bari presso il Dipartimento di Scienze Agro-Ambientali e Territoriali. Dal 2013 al 2018, il professore ha condotto il progetto BioDiverso, finanziato attraverso i fondi per l’agrobiodiversità stanziati dalla regione Puglia attraverso il Piano di Sviluppo Rurale: "La Puglia è molto vocata alla produzione primaria, con il progetto abbiamo intercettato e sostenuto una vasta rete di soggetti che mantengono le colture tradizionali. Alcuni di loro oggi sono riusciti a sviluppare mercati interessanti, non solo di nicchia, e anche in ambito europeo. Penso al melone barattiere, che è in realtà un melone immaturo, simile al cetriolo, ma non indigesto, e più zuccherino: ora è molto richiesto in Olanda, dove è entrato sul mercato col nome di Cumelo. O al lavoro fatto sulla carota di Polignano, fino a dieci anni fa a rischio estinzione, oggi coltivata in decine di ettari e migliorata nella tecnica colturale. Ricordiamoci che le varietà locali sono più adatte ai regimi biologici e spesso si caratterizzano per densità di nutrienti maggiori, quindi sono anche più salutari". Con il progetto BioDiverso, il professore e il suo team hanno lavorato in ambito accademico, pur stabilendo strette connessioni con le realtà del territorio: "Abbiamo iniziato con ricerca documentaria e interviste, recupero delle risorse genetiche e conservazione ex situ, con campi catalogo e due banche del seme, oltre all’attività di conservazione in crescita lenta di alcuni genotipi. Poi abbiamo caratterizzato i prodotti, risanato il materiale e informatizzato tutta la nostra attività, pubblicando molto a livello scientifico e iscrivendo alcune varietà nel registro nazionale varietale, istituito dalla legge 194/2015".
Registri, custodi e banche dei semi. Risorsa o limitazione?
Il famigerato registro nazionale varietale (e ancora prima quello stilato su base europea) apre in realtà un dibattito piuttosto acceso: "Per poterne commerciare i semi, una varietà dev’essere iscritta sul registro, altrimenti ne è ammesso solo il libero scambio, senza scopo di lucro. Ma il registro ammette solo varietà stabili, uniformi e riconoscibili; aggettivi che mal si conciliano con l’idea alla base della biodiversità. È chiaro che su questo punto pesano pressioni economiche, da parte dei produttori sementieri", spiega Stefano Scavino. Esiste però un’eccezione per il contadino che vuole vendere sementi da lui prodotte: iscrivere la varietà in un registro dedicato alla conservazione, per la salvaguardia di specie in via di estinzione. In questo caso, però, i semi potranno essere venduti solo nell’area di origine di quella specifica varietà (se non si tratta di specie commerciali “protette” da copyright). Più diretto ancora è Angelo Giordano, che non a caso parla di disobbedienza civile a proposito dell’impegno che porta avanti da anni: "Molte delle varietà che coltiviamo non potremmo venderle ed è un paradosso, perché stiamo tutelando il codice genetico di varietà non ibride, che è come dire che stiamo proteggendo un codice informatico open source. Questa è la società in cui tutto ha un prezzo, e niente più un valore. Penso allo strumento dei contadini custodi, che è sterile quanto le banche dei semi: quella dei custodi è una bella storia da vendere, ma quando il contadino custode morirà, con lui morirà anche ciò che ha custodito. R-Etika nasce proprio per questo: se anziché nominare un custode dimostro che recuperare quella varietà condividendo le conoscenze in rete conviene, potrò invogliare i più giovani a intraprendere questo lavoro. C’è da cambiare il paradigma. Smettiamo di farci dire come dobbiamo pensare".
a cura di Livia Montagnoli
disegni di Gianluca Biscalchin
Articolo uscito nel mensile di settembre 2020 del Gambero Rosso Il numero lo potete trovare in versione digitale, su App Store o Play Store
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