Affrontare l'emergenza Coronavirus a Roma
A valle del decreto con cui una settimana fa il Governo ha "chiuso" l'Italia per tentare di fronteggiare l'epidemia da Coronavirus, alcuni enti locali da nord a sud del Paese hanno deciso di approvare dei piccoli provvedimenti aggiuntivi anche per adeguare e calare le restrizioni sulle peculiarità dei territori, quanto mai diversi gli uni dagli altri in una nazione articolata come la nostra.
Il Lazio e Roma non sono state molto attive sotto questo aspetto, ma in realtà, qualche giorno fa, il 13 marzo, la Polizia Locale della Capitale ha diramato una circolare (la numero 47 del 2020) per precisare alcuni punti del Decreto e rendere più chiari dei passaggi, tagliandoli sulle caratteristiche della città. Il passaggio che ha generato sarcasmo e ilarità (perché c'è ancora qualcuno che ritiene siano i tempi delle polemiche e dello scherzo) è quello che precisa cosa possono o non possono fare i panifici, ai quali il decreto governativo consente l'apertura in quanto produttori di generi di prima necessità.
La circolare incriminata
L'articolo riguardante i panifici della circolare romana recita come segue:
1.4 Laboratorio di panificazione
Si conferma che l’attività di laboratorio di panificazione può essere esercitata. Tale attività comprende oltre alla preparazione di vari tipi di pane e grissini, anche la preparazione di pizza e focacce tipiche di panificazione sia bianche (semplici o condite con olio e rosmarino) sia rosse (condite al pomodoro ed olio) e di pasticceria secca. Non si deve considerare compresa la pizza condita e farcita diversamente. Si ribadisce che nello svolgimento dell’attività non può essere mai consentito il consumo sul posto, né, ovviamente, alcuna altra forma di somministrazione.
L'ironia e il cinismo romano non hanno atteso molto a dipanarsi, complici alcuni giornali e, purtroppo, alcuni ristoratori e operatori del comparto della vendita di generi alimentari (che invece fino a oggi si erano comportati in maniera seria). "Ma come, neppure due funghetti trifolati sulla pizza?". "E che pericolo sarà mai una pizza ai peperoni?". "Ecco, un'altra tegola per abbassare il fatturato degli artigiani e favorire la grande distribuzione organizzata". Tutte sciocchezze, ovviamente. Visto che questa volta l'intervento dei Vigili Urbani è stato quanto mai opportuno. Vediamo perché.
Perché è giusto vietare la pizza con la mozzarella
Non si può non premettere, per chi romano non è, quale sia la centralità della "pizza-a-taglio" (fuori dalla Capitale spesso "pizza-alla-romana") nelle abitudini di consumo capitoline. A differenza di tutte le altre città del mondo, Roma ha una miriade di piccoli esercizi commerciali che fanno solo quello: sfornare pizza in teglia (talvolta alla pala) e venderla a peso a consumatori che la mangiano immediatamente, calda, in piedi, dentro al locale o subito all'esterno, oppure camminando. Questi esercizi (il più famoso nel mondo è il Pizzarium di Gabriele Bonci) sono stati ovviamente chiusi dal decreto, come è stata chiusa tutta la ristorazione. Si tratta della quintessenza dello street food romano, in settimane in cui il consumo di cibo di strada non deve verificarsi, in settimane in cui si deve mangiare rigorosamente chiusi dentro casa non per strada magari assieme ad altri.
La logica di un divieto che sembra strano
Restano però aperti i forni che, tradizionalmente, oltre a pane e simili, preparano pizze semplici, più adatte all'asporto, come avviene peraltro in tutta Italia. Queste preparazioni si chiamano in maniera molto semplificata "pizza bianca" e "pizza rossa". Ovviamente queste restano consentite, sia perché è ciò che i forni hanno sempre fatto, sia perché si tratta di generi la cui abitudine di consumo, anche prima del contagio, prevede quasi sempre l'impacchettamento e l'asporto verso casa. Diverso è il discorso per le pizze farcite: se acquistate un bel trancio (a Roma "pezzo") di pizza con la mozzarella, appena sfornato, fumante e profumato, davvero ve lo fate confezionare e lo portate a casa? O magari vi vien voglia di consumarlo al volo nel locale o subito fuori? Stesso dicasi per una bella pizza salsiccia e friarielli o patate e cipolla, e via così. Appare ovvio, insomma, che una pizza semplice semplice sia la più adatta all'asporto, mentre una pizza elaborata vuoi o non vuoi spinga il consumatore (o una percentuale dei consumatori) a mangiar fuori casa, a non resistere nel consumarla in loco. Trasformando - è un attimo! - i forni in ristorantini e micro pizzerie all'impronta.
Perché il divieto solo a Roma?
Si potrebbe dire: ma perché allora il Decreto nazionale non prevede questa cosa? Perché non rispettare la norma che vale per tutta Italia? Semplice: perché in tutto il resto d'Italia quella abitudine di acquisto (comprarsi un pezzo di pizza e mangiarsela per strada) o non esiste o è marginale, mentre a Roma è un'abitudine radicata che fa parte della vita di ogni cittadino, di ogni età, da sempre. Ultimo, ma non ultimo, il provvedimento evita a monte liti, recriminazioni e ricorsi: le migliaia di pizzerie a taglio, vedendo che il loro mestiere viene d'un tratto svolto dai forni, potrebbero chiedere come mai sono state costrette a chiudere e domandare la riapertura incrementando ulteriormente il numero - già fin troppo elevato rispetto alle esigenze di distanziamento sociale di questi tempi - di esercizi commerciali aperti su strada.
Evitare le polemiche
Inutile dire che non vediamo l'ora che tutti gli straordinari artigiani della pizza a taglio romana possano riaprire prestissimo, per poterci godere pizze farcite in strada in maniera spensierata quanto prima. Ma per arrivare a questo risultato dobbiamo non solo rispettare le regole, ma evitare rigorosamente polemiche sciocche e ironia inutile e controproducente.
a cura di Massimiliano Tonelli