Avere 526 Dop-Igp è davvero un valore aggiunto per la viticoltura italiana?

9 Dic 2022, 13:30 | a cura di
Solo le prime 50 Do coprono il 95% del valore economico complessivo: è tempo di razionalizzare il sistema? Lo abbiamo chiesto alle principali associazioni di categoria. La risposta quasi unanime è stata di trasformare le denominazioni meno rappresentative in sottozone di quelle di punta. Ma non solo...

Da una parte c'è l'Italia della grande ricchezza varietale con 526 denominazioni, dall'altra quella che guarda ai grandi numeri e al valore; da una parte le grandi Do territoriali dall’altra le piccolissime nicchie: dove sta il giusto equilibrio? Il tema non è di certo nuovo, ma in un contesto sempre più competitivo dove la quantità sembra non pagare, ritorna ancora una volta di grande attualità, tanto che Unione Italiana Vini lo ha inserito nell’agenda delle priorità presentate al nuovo Governo. Ma non è l’unica associazione di settore a pensarla così. Alleanza Cooperative ha detto di essere pronta al confronto, anche per venire incontro al consumatore, subissato da informazioni sulle troppe denominazioni. Federvini parla dell’esigenza di fare “massa critica”. L’ente di certificazione Valoritalia, presentando il suo annuale bilancio, ha voluto sottolineare come siano solo le prime 50 denominazioni a coprire il 95% del valore economico complessivo, mentre le ultime 100 appena lo 0,47%.

Un patrimonio territoriale sfuggito di mano

“Crediamo fermamente che le nostre Denominazioni di Origine rappresentino un patrimonio collettivo inestimabile, tuttavia, la varietà del nostro territorio si è tradotta in un numero eccessivo di Do, una proliferazione che è sfuggita di mano” è il parere del presidente di  Federdoc Giangiacomo Gallarati Scotti Bonaldi:Sappiamo bene di avere troppe denominazioni con bassi livelli produttivi, che andrebbero cancellate secondo la disciplina vigente e altre che non hanno mercato, di cui i consumatori non hanno mai sentito parlare ma i cui costi di certificazione gravano comunque sul sistema. Spesso queste Denominazioni sono frutto di azioni politiche o campanilismi territoriali”. Il tutto si riversa sull’impossibilità di valorizzare il territorio come meriterebbe, sottolinea la Confederazione dei Consorzi: “L’attuale scenario di fatto rende più difficile la valorizzazione della nostra ricchezza ampelografica ed eccessivamente complesso comunicare al consumatore i tratti distintivi di ogni realtà, con una conseguente perdita di fatturato rispetto a nostri competitor. Infatti, il consumatore, sempre più attento, pur apprezzando la diversità, vuole comprendere ciò che acquista”.

Insiste sul valore di questo patrimonio tutto italiano anche Federvini, attraverso la presidente del Gruppo Vini Albiera Antinori “Prima di pensare alla reale utilità di una semplificazione, dobbiamo capire il perché di 526 denominazioni registrate. L’Italia è ricca di microclimi: abbiamo viticoltura di montagna, dove il terroir molto spesso cambia da versante a versante, abbiamo una straordinaria viticoltura di collina, una viticoltura di entroterra e una viticoltura di territori che si affacciano sul mare, siano essi di pianura o a strapiombo sul mare. Le tante denominazioni sono uno specchio di questa ricchezza. La seconda domanda da farsi, essendo noi un settore economico fatto da imprese magnifiche e, fortunatamente, dinamiche è: come possiamo far rendere al meglio il nostro patrimonio?”

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Lavorare alla creazione di più sottozone

La prima risposta che sembra mettere d’accordo tutte le associazioni di settore è il “raggruppamento”. “Crediamo che una soluzione potrebbe essere individuata nel trasformare alcune delle nostre denominazioni meno rappresentative sul mercato, in “sottozone” di denominazioni più grandi, raggiungendo una razionalizzazione del sistema senza intaccare la peculiarità di cui queste realtà sono espressione”, è la proposta di Federdoc, da sempre in prima fila in questa battaglia.

Sulla stessa lunghezza d’onda Federvini: “Bisognerebbe favorire l’avvio di riflessioni sui territori con la prospettiva di creare valore” spiega a Tre Bicchieri Albiera Antinori “Ecco allora che potremmo accorgerci che alcune denominazioni confinanti potrebbero trasformarsi in sottozone o unità geografiche aggiuntive, puntando su un nome di territorio più ampio per arrivare, anche con una maggiore massa critica, al grande pubblico, straniero, che a volte ha dimostrato difficoltà nel comprenderci. Un lavoro in questo senso non lascerebbe nessuno indietro. Poi è chiaro” continua Antinori “che, se nel corso di questa riflessione dovesse emergere che effettivamente ci sono nomi che non hanno più senso di esistere, i produttori opteranno per un loro superamento. A livello formale è necessario presentare domande di modifica di disciplinari di produzione e, nel caso di cancellazione, la strada da intraprendere parte dal basso, attraverso una sensibilizzazione dei produttori. Solo da loro può partire questo percorso: è chiaro che in questo, le associazioni devono stimolare la discussione, con il supporto di Regioni e Ministero perché la necessaria burocrazia non diventi un ostacolo al cambiamento”.

Criteri più stringenti nel Testo Unico

Per Unione Italiana Vini la strada delle sottozone è senz’altro una via da seguire, ma non l’unica. “Il ricorso alle sottozone o alle Uga permetterebbe di lavorare sulla piramide qualitativa del territorio” spiega a Tre Bicchieri il segretario generale Paolo Castelletti “Si tratterebbe di una riclassificazione che, in ogni caso, dovrebbe partire dal basso, senza imposizioni dall’alto”. Sta, quindi, ai singoli Consorzi capire il vantaggio e le opportunità di riorganizzarsi attorno alla denominazione di punta. Stesso discorso dovrebbe valere per Igt, con la definizione di una soglia minima di imbottigliamenti annui e l’accorpamento in Igt regionali di quelle con scaglioni produttivi inferiori.

C’è anche un secondo filone di intervento da seguire, che passerebbe, però, dalla modifica del Testo Unico del Vino: Si tratterebbe di evitare la proliferazione futura della Do, attraverso dei criteri più stringenti e oggettivi che definiscono la rinomanza commerciale e la reputazione di un vino a Denominazione. Inoltre” continua Castelletti “sempre intervenendo sul Testo Unico, si potrebbe lavorare sulla gestione delle riclassificazioni verticali e orizzontali e sui declassamenti, facendo in modo che l’eventuale Doc ricevente, prima di assorbire un’altra denominazione possa avere il quadro chiaro e la possibilità di organizzarsi per la gestione del mercato”.

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a cura di Loredana Sottile

L’articolo completo è stato pubblicato
sul Settimanale Tre Bicchieri del 7 dicembre

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