Sono lontani i tempi in cui l’enoteca Bulzoni di Roma veniva multata per aver osato scrivere “vini naturali” su uno dei suoi scaffali. Era il 2012. Adesso, seguendo quella ratio, andrebbero multate centinaia e centinaia di insegne delle principali città italiane. Se il proliferare di enoteche, carte dei vini ed eventi dedicati ai vini naturali è un cambiamento tangibile, diffuso in ogni comparto della società che apre riflessioni e confronti un po' ovunque, a non cambiare è la completa disattenzione al fenomeno da parte di chi legifera.
I vini naturali non sono riconosciuti dalla legge
Al momento non esiste nessuna proposta per dare una definizione e nessun regolamento da seguire. Va da sé che dentro ci finisce un po’ di tutto. A mettere i paletti, semmai, al di là dei singoli manifesti (vedi Triple A) devono essere gli stessi produttori. Ed è a loro – sempre più numerosi nelle manifestazioni nazionali– che abbiamo chiesto di dare una definizione.
I vini naturali alla conquista del gusto internazionale
“Il vino naturale è un vino non artefatto, che segue il ciclo delle stagioni. Nel nostro caso, ad esempio, l’imbottigliamento avviene in primavera perché è il momento in cui i lieviti sono più svegli” spiega Antonella Fontana della cantina Folicello, che fa vini naturali o, meglio, “ancestrali” e senza solfiti (come si legge nel biglietto da visita) a Castelfranco Emilia dal 1980 per un totale di 40mila bottiglie che prendono anche la via dell’estero, dagli Usa alla Norvegia, fino all’Arabia dove però ad andare per la meglio sono i succhi di uva.
Conferma l’interesse straniero per i vini naturali anche Giovanni Ciampi di Tenuta de Maio in Puglia, “in modo particolare è la Corea del Sud a richiedere tanti rifermentati”. Neppure lui ha una definizione universale di vino naturale, ma applica il suo metodo, che è quello che gli viene dagli insegnamenti del passato: “In vigna pratichiamo meno interventi fitosanitari possibili, in cantina fermentazioni spontanee, nessuna chiarifica né filtrazione, come mi ha insegnato mio padre, e come a mia volta insegno ai miei figli”.
Il vino naturale in risposta alla standardizzazione del gusto
“La definizione non esiste” sottolinea Andrea Ghigliazza dell’azienda biologica Castel del Piano in Toscana, che produce 40mila bottiglie, di cui 10mila rifermentati “è un vino che si fa nel rispetto dell’ambiente e di chi lavora, valorizzando la terra e l’uva. Ma è molto complicato arrivare ad una legislazione in materia. Prendiamo il bio: c'è tutta una serie di sostanze che continua ad essere ammessa e che chi fa vino naturale vorrebbe ridurre, ma siccome ci sono interessi più grandi, questa ulteriore restrizione non sempre è possibile”. Si spinge oltre Ghigliazza: “Sono gli enologi che nel tempo hanno spostato i parametri, alla ricerca di un vino standard e sempre uguale nel gusto. Tutto l’opposto di quello che è il vino naturale. Per cui, visti i precedenti, forse è anche meglio che non ci sia una legge”.
Un po’ quel che dice una gigante del movimento, Elisabetta Foradori che dal 2002 sulle Dolomiti ha spostato la biodinamica come stile di vita: “Teniamo presente che sul metodo agricolo biodinamico il mondo scientifico continua a essere molto critico. Qualche anno fa la legge sul bio che apriva alla biodinamica è stata bloccata, come in una sorta di caccia alle streghe. Un grave errore: io ho visto la fertilità della mia terra cambiare radicalmente senza usare nessuna sostanza proveniente da fuori”.
Il rischio è che diventi solo una leva di marketing
Infine, una riflessione critica da parte di Mario Basco della cantina campana I Cacciagalli, che porta avanti una filosofia di profondo rispetto per il vino con meno interventi possibile sia in vigna sia in cantina: “Vent’anni fa serviva un aggettivo incisivo, ma improprio, per rompere gli schemi, ora è diventato un orpello che ci portiamo dietro, usato da grandi agenzie di marketing per rinnovare l’immagine di aziende che di naturale non hanno proprio nulla”.
Da una parte, quindi, il timore che una eventuale legislazione possa far perdere l’autenticità del vino, dall’altra un vuoto normativo che ignora un metodo partito dal basso e ormai applicato anche ad alti livelli.
Possibile che un punto di incontro non sia possibile?