Allevamenti di agnelli e pecore. La lana che fine fa?

12 Feb 2021, 14:58 | a cura di
Trascurata, dimenticata, fino a diventare un peso per il suo smaltimento: dagli anni ’70 in poi la lana ha iniziato a perdere il suo valore, rappresentando non più una risorsa bensì addirittura un costo \elevato per gli allevatori. Nonostante si tratti di uno dei tessuti più resistenti, durevoli e sostenibili che ci siano. Come invertire la rotta?

Eppure, la lana è sempre stata utile all’uomo. Per coprirsi, ma anche per costruire capanne fra i monti dove trovare ristoro: termoisolante, resistente e idrorepellente, il tessuto ricavato dalle pecore era in origine uno dei pochi disponibili per chi viveva in campagna. Soprattutto per chi praticava la transumanza, tradizione divenuta patrimonio immateriale dell’Unesco e basata sul profondo rapporto tra uomo, natura e animale, un legame intimo, di quelli che si stringono in condizioni di isolamento e silenzio. Momenti di passaggio, di rituali, gesti ripetuti, ritmi ben scanditi: ogni giorno, da capo. Ripartire e ricominciare. Con le pecore al passo e i loro prodotti addosso o nelle bisacce.

Lana. Il primato della merino

Poi c’è stato il secondo dopoguerra, il boom economico che ha dato vita alle prime regole della moda così come oggi la conosciamo, lana compresa, che diventa gradualmente un materiale di pregio. Ma di lana, dagli anni ’70 in poi, ce n’è una sola: la merino, che ha lentamente sostituito quella degli altri Paesi. L’Italia non fa eccezione e basta parlare con gli allevatori per capire quanto massiccia e complessa sia la crisi del settore: perché, se nessuno compra più lana made in Italy, che ne è di tutti gli “scarti” della tosatura? Finiscono fra i rifiuti speciali, quelli di categoria 3: la lana viene imballata e portata in impianti di smaltimento specifici, con conseguenti costi ed emissioni di CO2.

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Microfibra e microplastica. La crisi della lana

Una crisi che è economica ma anche ambientale: oltre all’avvento della merino, a partire dagli anni ’90 arrivano i tessuti in microfibra, gli stessi che negli ultimi tempi hanno destato scalpore per via delle microplastiche rilasciate a ogni lavaggio. Economici, alla portata di tutti, pratici: così gli abiti sintetici hanno surclassato la lana, quella lana che 80 anni fa aveva un valore perfino maggiore a quello del formaggio, perso fino a diventare un peso per lo smaltimento: trascurata, in favore del latte che doveva fare reddito. Del resto, non è stato semplice per i pastori fare i conti con i costi di trasformazione, “così alti da costringere i commercianti a puntare esclusivamente su un prodotto pregiato come la merino per riuscire guadagnare qualcosa e a fare margini. Oppure più a basso costo, come le microfibre”, spiega Nigel Thompson, titolare della Biella Wool Company, azienda creata nel 2008 “per assistere gli allevatori e dare un futuro al settore”.

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Gente della lana. Il progetto di Biella Wool Company

Un futuro in cui Thompson crede ancora: è stata proprio la Wool Company ad accogliere per prima il progetto trentino Bollait – gente della lana, nato nel 2016 per volontà di un gruppo di professionisti con il desiderio di recuperare un’antica tradizione. “Ci troviamo nella valle dei Mocheni”, spiega una delle fondatrici, Barbara Pisetta, “dove ci sono circa 5mila pecore che producono sui 7/8mila chili di lana l’anno”. Lana che veniva buttata via perché considerata più grezza rispetto alla merino. Così Barbara, Vea, Daniela, Giovanna e Stefano chiamano a raccolta i pastori della zona, che riescono a mettere insieme 700 chili di lana, trasformati poi dall’azienda di Biella. Un anno dopo nasce il comitato Bollait (in dialetto mocheno significa, appunto, gente della lana), che nel 2019 arriva a produrre ben 3mila chili: “Abbiamo migliorato il processo di selezione: usiamo la lana migliore, quella delle spalle e dei fianchi, per il filato, mentre il resto viene impiegato nella lavorazione delle falde”. Ora c’è anche la lana di pecora nera, “da sempre scartata”, e soprattutto i pastori vengono remunerati, “chi porta 100 chili di lana riceverà l’equivalente di 100 euro di prodotti finiti”.

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Allevamenti di agnelli e pecore: prima non si buttava via nulla

Le iniziative non mancano, ma le difficoltà per tantissimi pastori di tutta Italia restano. Marco Carbonara dell’agriturismo Pulicaro nella Tuscia viterbese al confine con Umbria e Toscana, per esempio, ricorda bene che in passato anche la lana delle pecore “da carne”, quindi con un manto meno soffice e delicato rispetto alle altre, veniva comunque lavorata. “Non si buttava niente”: è sempre stato questo il motto di chi lavora la terra. Anche la lana meno morbida trovava allora una funzione, “spesso per infeltrire i cappotti”. Quella “intermediaandava bene per le coperte, mentre alla maglieria veniva destinata solo la più pregiata, “che era un bene di lusso!”. Il tempo a cui Marco fa riferimento non è poi così lontano: parliamo di una sessantina di anni fa, un’epoca vicina eppure culturalmente remota. “Ma ora siamo diventati esigenti, vogliamo solo tessuti fini. Una tipologia che le nostre pecore non possono darci”.

Il costo della lana

Carbonara fatica a ricordare quando esattamente sia avvenuta questa evoluzione, ma sa per certo che è stata rapida: “In men che meno tutti si sono specializzati, merino e cashmere erano considerati al di sopra di tutto il resto, e le lane intermedie non sono più state utilizzate”. Qualche soluzione per non sprecare la lana, comunque, c’è: la si può usare per la pacciamatura dell’orto, la copertura del terreno con materiali naturali fatta per proteggere la terra dagli sbalzi termici, mantenerla umida e compatta. “L’ho utilizzata anche per realizzare i materassi dell’agriturismo, per limitare quanto meno lo smaltimento. Certo, restano i costi della tosatura…”. Perché la lana, nonostante le sue tante qualità, non si vende. E di alcuni costi, al momento, sembra impossibile rientrare.

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Gli usi alternativi della lana

Giancarlo Gentili dell’azienda agricola Valleluterana, a pochi chilometri da Roma, lo sa bene, tant’è che è costretto a regalarla, e pensare che i miei nonni ci guadagnavano con quella lana!”. Le sue sono pecore di razza sopravissana, tra l'altro fra le migliori per la lana, che in passato garantivano prodotti di buona qualità: “Lasciamo da parte i vestiti: chi ricorda i materassai? Quand’ero bambino venivano a casa, cardavano la lana e preparavano il materasso”. Poi le cose sono cambiate, e oggi bisogna trovare nuovi impieghi per questo tessuto: una parte viene usata per esempio nella bioedilizia, “È perfetta anche per il sonoro, si possono creare dei pannelli bio isolanti”. Ma dovrà pur esserci un modo per ricominciare a venderla… o no? “Difficile. Bisognerebbe creare un circuito di pastori, ma chi è disposto a farlo? Il mercato ci ha proiettati tutti verso le pecore da latte, infatti siamo in pochi ad avere la sopravvissana”.

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Il progetto Sibillana

Oltretutto mancano anche i lanifici, “almeno qui nel Centro Italia”, aggiunge Maria Pia dell’azienda agricola San Maurizio, di nuovo nel Lazio, fra i comuni di Picinisco e Settefrati in Valle di Comino. A lei piacerebbe recuperare la filiera, “ma il primo lanificio utile è quello di Biella”. Per il momento, usa la lana per confezionare i prodotti ma a breve la situazione cambierà: Silvia Bonomi de La Sopravissana dei Sibillini di Macerata ha infatti avviato un progetto che partirà a inizio 2021, con tanto di lanificio a Montefortino. “Siamo un gruppo composto quasi esclusivamente da donne”, racconta, “abbiamo selezionato i capi di bestiame migliori di sola razza sopravissana, per creare una filiera 100% italiana, dalla nascita della pecora alla filatura”. A far parte del progetto Sibillana sono donne delle zone colpite dal terremoto del 2016, “donne che hanno perso il lavoro, chi per il sisma, chi più recentemente per il Covid”. Un progetto solidale al centro del quale c’è il benessere animale: “Il mio obiettivo è quello di creare una scuola della pastorizia, dove insegnare come trattare le pecore, ma anche come crescere i cani pastori”. A breve comincerà la produzione, tutta italiana, “è un dettaglio a cui teniamo molto: la sopravissana è una pecora da riscoprire”.

QUESTO È NULLA...

Nel mensile di febbraio del Gambero Rosso trovate il reportage completo, insieme a tante altre curiosità. Qualche anticipazione? Siamo andati a conoscere da vicino la sopravvissana de La Porta dei Parchi ad Anversa degli Abruzzi e abbiamo cercato di fare chiarezza tra lana vergine e riciclata. Nell’articolo trovate anche gli approfondimenti sui progetti italiani dedicati al riutilizzo di questo prodotto, le razze principali da cui si ricava e le riflessioni sull’etica della lana. Cosa aspettate?

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store. Abbonamento qui

parole di Michela Becchi - disegni di Daniela Bracco

 

 

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