Colazione di Tiffany e il mito di Audrey Hepburn
La racconta con leggerezza, Blake Edwards, la storia di Holly Golightly e il suo Gatto, micio senza nome che non appartiene a nessuno, proprio come lei. Lo stesso tono sognante e ingenuo che si ritrova anche in altri suoi lavori (come la serie “La Pantera Rosa”), eppure la trama del film del ’61 ispirato al romanzo di Truman Capote ha saputo conquistare i cuori degli spettatori soprattutto grazie al finale strappalacrime con il bacio sotto la pioggia, sulle note di Moon River di Henry Mancini e Johnny Mercer, canzone originale che è valsa ai compositori un Oscar e che è entrata di diritto tra le musiche più romantiche della storia del cinema. La stessa che la giovane e squattrinata Holly suona in balcone mentre il suo vicino Paul Varjak (George Peppard) la ascolta incantato. Furba, modaiola e mondana, elegante in modo irresistibile: se la pellicola ha avuto così tanto successo il merito è soprattutto della sofisticata Audrey Hepburn, diva senza tempo che con il suo tubino Givenchy – lo stesso per tutte le scene del film, venduto all’asta per più di 570mila dollari – i suoi gioielli e il portamento inconfondibile che riesce a mantenere persino mentre sbocconcella un croissant guardando la vetrina della gioielleria (nell’unica scena che rappresenta una Colazione da Tiffany) è diventata un’icona di stile per intere generazioni.
Tiffany, le paturnie e il personaggio di Holly Golightly
Tiffany, il suo posto nel mondo, l’unico per molto tempo. Il rifugio ideale per quando le prendono le “paturnie”, quell’improvvisa “paura di non si sa che”: una sensazione di angoscia repentina e irreparabile, che solo un luogo come la gioielleria può placare, un posto dove “niente di brutto può accaderti” e non per i gioielli “che a me non piacciono, tranne i brillanti, s’intende…”. E pensare che Capote, l’autore del romanzo, si arrabbiò perché aveva immaginato Marilyn Monroe nel ruolo della protagonista. Quella donna dolce e cinica al contempo, sregolata e testarda, selvatica, apparentemente libera ma intrappolata dalle sue paure, istintiva ma misurata in ogni scelta. Affascinante come poche, con la puntuale interpretazione della Hepburn, Holly Golightly detta il ritmo di un film coinvolgente, ironico, romantico e a tratti sprezzante, tra feste, calici di vino, l’immancabile sigaretta nel bocchino e le “mance per la toeletta”. Da principessa di “Vacanze Romane” a donna che rivendica la propria autonomia racimolando denaro accompagnando i suoi “vermi” e “supervermi”, nel film di Edwards l’attrice offre un’immagine diversa: non una femme fatale e nemmeno un’eterna lolita, né santa né peccatrice. Solo una ragazza disincantata e disinibita, composta e senza doppi fini, se non quello – dichiarato – di ottenere i soldi di cui ha bisogno, al punto da accettare una proposta di matrimonio senza sentimenti. Un personaggio all’avanguardia per gli anni ’60, che come scrive l’autore statunitense Sam Wasson, “ha cambiato per sempre il modo in cui le donne potevano e sarebbero state rappresentate nei media”.
Moon River (and me) e il croissant
Apre e chiude il film, Moon River, la canzone scritta apposta per la Hepburn, calibrata sulla sua estensione vocale, e voluta fortemente dall’attrice. Una canzone per i sognatori, gli innamorati dell’amore, quel tocco sentimentale che emerge prepotentemente dalla protagonista all’apparenza fredda e insolente, nella scena in cui il vicino la sorprende a cantare con aria nostalgica in jeans e maglietta, per una volta senza gioielli o cappelli, vestiti alla moda e artifizi. E poi la scena finale in cui riesce finalmente ad abbracciare quella parte di sé rimasta sepolta per tanto tempo, dopo l’ultimo straziante gesto di ribellione che le fa abbandonare Gatto lungo la strada, quell’animale libero e autonomo in cui si vuole riconoscere a ogni costo, e che alla fine, dopo aver gridato disperatamente sotto la pioggia, ritrova ancora lì. Ad aspettarla, forse, o magari solo a ripararsi. Ma era lì, e c’era Paul, per la prima volta anche Holly. Un lieto fine ben diverso da quello del libro, ma che nel film funziona perché chiude un cerchio, completando l’evoluzione della protagonista.
Storia del croissant
Sempre al ritmo di Moon River, la pellicola comincia inquadrando la Golightly sulla Fifth Avenue intenta a fare colazione dopo una notte di festa, con il suo croissant. Simbolo della pasticceria francese, il croissant affonda le sue origini nella cultura austriaca: i racconti popolari narrano che sia stato creato per festeggiare l'eroica impresa dei fornai viennesi che, svegli in piena notte per lavorare, nel 1683 diedero l'allarme dell'assedio da parte delle truppe ottomane alla città. Sconfitti i turchi, i viennesi decisero di festeggiare con un dolce che avesse la forma del simbolo dell'impero turco, la mezzaluna (croissant significa, letteralmente, crescente). Ma attorno al dolce si è creato un vero mito: altre storie ne fanno risalire la nascita nel 1839, anno in cui l’ufficiale di artiglieria austriaco August Zang fondò la Boulangerie Viennoise in via de Richelieu, 92 a Parigi. Qui, tra le tante specialità, a dominare la scena era il kipferl, lievito ripieno di noci considerato da molti storici l’antenato del croissant. A prescindere dall’origine, la prima testimonianza scritta del dolce risale a metà Ottocento, nel volume “Des substances alimentaires”, e poi ancora nel “Dictionnaire de la langue française” del 1863, mentre la prima ricetta arriva solo nel 1906, nella “Nouvelle Encyclopédie culinaire”.
La ricetta del croissant
a cura di Michela Becchi
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