Si chiama moco, ed è un legume tipico delle valli della Bormida, una varierà di cicerchia antica, fino a poco tempo fa quasi scomparsa. Lo scorso anno la produzione è stata circa un quintale, merito dell'opera di recupero cominciata una decina di anni fa, seguendo le tracce di altre colture salvate a partire da una trentina di amici, un centinaio di semi e da qualche metro quadrato di terra. Così è partito il recupero di questo legume arcaico, oggi coltivato nei comuni di Cairo Montenotte, Cengio, Millesimo, Dego, Murialdo, Calizzano e Cosseria nelle valli della Bormida (Savona).
Moco, origini e tradizioni
Secondo alcuni, nella zona oggi del savonese, al confine tra le Alpi e gli Appennini, il moco risale almeno all'Età del Bronzo, circa quattromila anni fa, ma bisogna attende fino al '700 per trovare le prime testimonianze scritte, nell'Archivio di Stato della Repubblica di Genova. E sempre in Liguria, sua terra d'elezione, un gruppo di agricoltori, oggi, ne ha riportato in vita la coltivazione, quanto mai adatta ai tempi attuali in cui il cambiamento climatico sta mettendo in difficoltà molte colture.
Il moco è infatti una pianta rustica, tenace, in grado di resistere ai parassiti e di crescere anche su terreno poveri e in condizioni estreme di scarsità di acqua. Proprio questo lo rendeva così comune nelle valli attraversate dai tre corsi d’acqua che confluiscono nel fiume Bormida, al punto che gli abitanti di Rocchetta, frazione di Cengio, eravano chiamati “mangia mochi”. Nei tempi andati i suoi fiori bianchi con screziature azzurre coloravano le alture di Cairo Montenotte, di Cengio e degli altri paesi della valle Bormida.
Il moco, caratteristiche organolettiche e uso in cucina
“Si seminava, e lo si fa ancora oggi, il centesimo giorno dell’anno, il 10 o l’11 aprile, sessanta giorni più tardi fiorisce e tra la fine di luglio e la metà di agosto si raccolgono i baccelli” spiega Gianpietro Meinero, segretario della Condotta Slow Food Alta Valle Bormida e referente del neonato Presidio. Il difetto? “Richiede molto lavoro: si semina a mano, si estirpano le erbacce a mano, si raccoglie a mano e non esiste neanche un setaccio che vada bene per tutti i semi, perché hanno dimensioni diverse”, comunque piccolissime: tra i 4 e i 6 millimetri.
Una volta raccolti i baccelli e lasciati ad asciugare al sole per qualche giorno, la prima domenica dopo ferragosto la tradizione vuole che i produttori – quelli che per ora hanno aderito al Presidio sono quattro – si riuniscano attorno a un tavolo e li sgranino a mano.
Ogni baccello contiene da uno a tre semi irregolari, “i semi più piccoli, quelli che tendono a spezzarsi, vengono macinati e trasformati in farina, con cui si prepara una deliziosa farinata, gli altri sono ideali per le zuppe, li confezioniamo interi in sacchettini” aggiunge il referente dei produttori, Elvio Bonino.